Specie di spazi di Georges Perec
“Vorrei che esistessero luoghi stabili, immobili, intangibili, mai toccati e quasi intoccabili, immutabili, radicati; luoghi che sarebbero puntidi riferimento e di partenza, delle fonti: il mio paese natale, la culla della mia famiglia, la casa dove sarei nato, l’albero che avrei visto crescere (che mio padre avrebbe piantato il giorno della mia nascita), la soffitta della mia infanzia…
Tali luoghi non esistono, ed è perché non esistono che lo spazio diventa problematico, cessa di essere evidenza, cessa di essere incorporato, cessa di essere appropriato. Lo spazio è un dubbio: devo continuamente individuarlo, designarlo. Non è mai mio, mai mi viene dato, devo conquistarlo.”
Il libro di Georges Perec, Specie di spazi, provoca vertigine. Un libro che solo un visionario, folle e funambolico scrittore come Georges Perec poteva scrivere. Inizia con un avviso: L’oggetto di questo libro non è esattamente il vuoto, sarebbe piuttosto quello che vi è intorno. Lo spazio non in senso metafisico o infinito, ma in senso reale tangibile.
Cos’è lo spazio che viviamo? Cosa sono le case, i giardini, le strade? Sono davvero nostri solo perché li abitiamo oppure restano altro, diverso da noi, lontano, non possedibile. Sono tanti gli spazi, un mucchio di pezzetti di spazio, piccoli e grandi. Ci sono nazioni colorate dello stesso colore sulla mappa e che per quel colore uniforme hanno pagato con molto sangue. Ci sono spazi di ogni misura per ogni uso e ogni funzione.
“Vivere è passare da uno spazio all’altro, cercando il più possibile di non farsi troppo male”.
Nella prima pagina la carta dell’Oceano di Carroll ne La caccia allo snark. Uno spazio bianco delimitato da un quadrato. Ed è così che la vertigine ha inizio. Bisogna fermarsi un attimo, respirare e andare avanti, se ci si riesce, perché la bellezza dello spazio si dispieghi agli occhi del lettore. Il turbinio mentale di Perec trova l’aggancio dalla pagina vuota e parte. La pagina bianca è il primo spazio di riflessione (lo è sempre per chi scrive), poi si dilata, si riempie, vola via fuori attraverso le note a margine e esce dal foglio, passa al biancore del letto, poi alla camera e se va a giro nel palazzo e poi nel quartiere, nella città, nella nazione e nel firmamento. Spazi sempre più grandi che sono anche irrimediabilmente piccoli. Spazi che si possono guardare e mai possedere davvero.
“Mettere, ritrovare o plasmare le proprie radici, strappare allo spazio il luogo che sarà vostro, costruire, piantare, appropriarsi, millimetro dopo millimetro, di una casa propria: appartenere interamente al proprio paese… (…) oppure avere solo i vestiti che si portano addosso…”
Gli interrogativi rimangono, i dubbi intorno all’abitare, sul significato dell’abitare una camera, o un luogo restano dove stavano all’inizio. Divisi da porte che proteggono, separano, bloccano, rompono e dividono lo spazio.
Perec è un genio. Nella sua genialità c’è un punto vuoto, qualcosa che manca, profondo, instabile, incolmabile. La sua scrittura gira intorno a questo vuoto cercando di dargli forma e sostanza. Georges Perec nasce a Parigi da genitori polacchi nel 1936. Suo padre muore in guerra nel 1940. Georges ha quattro anni. La madre viene deportata e uccisa in un campo di concentramento. Sono passati solo tre anni dalla morte del padre. Georges è solo. Si interrompono i contatti con le radici, con la lingua dei suoi genitori, con tutto ciò che vuol dire essere ebreo e che non sarà spiegato da un genitore. Non c’è una casa di famiglia, non c’è un lettino dove si raccontano le favole, non c’è un camino acceso… resta un vuoto.