Le mie Maldive

Riflessi di Oceano – Capitolo 9

Capitolo 9

Al mercato ci sono pochi prodotti. Riesco a capire con il mio dhivehi che il vento forte degli ultimi giorni non ha permesso ai cargo di arrivare e quindi… 

Ki kurani!

Bisogna accontentarsi di un sacco di patate e uno di cipolle, riso e farina. Mancano i fagiolini, i porri, il cavolo e le ananas. Pazienza faremo solo con le banane e le papaie che sono locali e con i cibi conservati. Ma i prezzi sono aumentati parecchio dalla scorsa settimana. I commercianti alzano le braccia: il prezzo lo fa la domanda e qui c’è solo questo da comprare. Ci si può discutere quanto si vuole ma in questi casi non conoscono ragione, meglio non vendere nulla piuttosto che sentire di aver perso un’occasione di guadagnare di più per lo stesso oggetto. Non sono andati a scuola ma i conti col denaro li sanno fare bene. La vita di qui è dura, bisogna sapersi arrangiare in un Paese che non ha risorse e vive dell’industria della pesca e della nascente industria turistica. Bisogna saper ottenere il più possibile da quello che c’è e saper anche conservare il gusto della vita. Nessuno si lamenta mai veramente anche quando le cose non vanno tanto bene, ci si ammala o si perde qualcuno di veramente caro per una malattia.
A Malé c’è un unico ospedale costruito dagli indiani e dedicato a Indira Gandhi. È pubblico ma per andarci si paga e non tutti possono permetterselo. Le famiglie che sono “riuscite” col turismo si curano qui o vanno in India dove si può pure fare un trapianto d’organo e salvarsi da morte quasi certa. Ma sono ancora pochi casi, leggende che si raccontano per strada. La verità è che ci sono ancora parecchi problemi con le malattie infettive, le infezioni e i parti. Molti neonati muoiono nella prima settimana di vita, così per non affezionarsi troppo è d’uso non dar loro il nome fino al compimento del settimo giorno. I figli sono comunque una benedizione e si cerca di farne tanti, ma non è così facile mantenerli e proteggerli da insetti portatori di malattie esotiche, carenze di vitamine o dal destino che se li porta via senza spiegazione. I bambini maldiviani sono sempre bellissimi. Hanno occhi ingranditi dal Kajal, pelle e capelli protetti da olii profumati e  sono sempre puliti e ben vestiti. Le bambine sembrano bambole con gonnelline di tulle rosa e scarpine con le perline. I soldi messi da parte col lavoro della pesca o del turismo serviranno per mandarli a scuola, forse all’università.

Le Maldive sono in gran fermento, il mondo vuole venirci, le richieste aumentano sempre di più. Il Governo mette all’asta nuove concessioni che diventeranno resort di lusso, che diventeranno isole del sogno di milioni di turisti. Le gare d’appalto sono aperte a tutti ma di fatto le vincono le società maldiviane. I progetti vengono valutati per il loro impatto ambientale e sociale, per i posti di lavoro che offriranno, per il numero di posti letto che verranno costruiti. La società vincitrice si impegna a pagare una quota annua al Governo per ogni posto letto costruito, cifre che diventano sempre più importanti, sempre più importanti, fino a diventare a molti zeri. È l’argomento di cui si parla di più: tanti resort, tante persone, strade, ospedali, scuole, benessere per tutti. E tutti vogliono poter approfittare di questa manna che viene predetta. Lo stipendio medio, nel periodo di cui sto raccontando, è di circa quattrocento dollari. Il datore di lavoro paga il salario, le visite mediche e le medicine, le sigarette, i vestiti di lavoro. Non esiste un contratto di lavoro o una Previdenza. In linea generale i posti di lavoro ci sono e con un po’ di inventiva è anche possibile creare la propria azienda, inventarsi un business.

Il sabato è anche il giorno in cui si sbrigano questioni burocratiche e si parla di affari. Stefano mi raggiunge in città dopo aver fatto l’ultima immersione col gruppo per incontrare il proprietario della Wattaru. L’appuntamento è in una sala da tè. Entrando il contrasto di luce fa sembrare la stanza completamente in ombra, protetta dal caldo tropicale. Gli occhi si devono abituare per vedere le pareti verdi e azzurre, gli uomini con abiti occidentali profumati e puliti e quelli con i visi feriti dal sole e dal sale con i parei tradizionali da pescatore seduti agli stessi tavoli consunti su sedie di legno scompagnate. Il leggero sentore di fritto sormontato da quello del tè dolce e da quello di un’umanità in grado di ritagliarsi momenti di socialità semplice.
Mufeed ci fa cenno da un tavolo d’angolo ancora più al buio e appena ci sediamo ordina al ragazzino smilzo che si avvicina.
Malli, tin kalu!
Tre tazze di tè nero, senza aggiunta di latte ma già zuccherato come lo servono qui. Sul tavolo ci sono vari piattini di plastica di diversi colori, su ciascuno di essi gli hedika, l’equivalente delle tapas spagnole, sono polpette di pesce al curry, involtini di verdure piccanti o di tonno e cocco o dadini di budino di riso. Il colore del piatto indica il prezzo del pezzo singolo e si paga solo quello che si mangia. I piattini mezzi vuoti vengono riempiti all’arrivo di nuovi avventori. Mi chiedo quante mani possono aver toccato le polpette che sono sul nostro tavolo ma evito il pensiero e ne addento una, piccantissima. Mi scendono le lacrime e i due uomini al tavolo con me ridono. Parliamo di alcuni lavori che vorremmo venissero fatti sulla barca per rendere più facile lo svolgimento dei safari e lui promette che li farà alla fine della stagione quando si potrà fare la manutenzione “grande” e non solo quella ordinaria. Ma il tema più importante è il cuoco che se n’è andato.

I know the problem. Shareef told me… Don’t worry I have another cook.
Has he got experience?
Yes, yes. This time is a good cook. He’s Maldivian, he will do well if you look after…

Dice che gli italiani sono bravi, insegnano il lavoro bene, e pure la lingua italiana e l’inglese, che servono entrambe. Mentre i francesi o gli inglesi non sono collaborativi e si lamentano solamente che l’equipaggio non conosce il lavoro. Dice che lui fa del suo meglio per trovare lo staff giusto ma mancano le persone con le competenze che cerchiamo. Concordiamo che tutti dobbiamo fare la nostra parte perché i safari vadano bene e gli ospiti siano contenti ma, dentro di me, spero di non dover passare un’altra settimana in cucina.
Il conto è un numero scritto a penna biro su un quadratino di cartoncino recuperato da chissà quale confezione che il ragazzino smilzo ci poggia sul tavolo mentre sostituisce i piattini vuoti e toglie le tazze. Quando ci alziamo un uomo con i capelli bianchi e pochi denti si avvicina e parla con Mufeed. Lui ci spiega che l’uomo non è più in grado di andare a pesca e non ha famiglia. Tira fuori una banconota con naturalezza e la da al cameriere indicando l’uomo che si è già seduto al tavolo per mangiare il pasto che Mufeed gli ha pagato. Ognuno deve fare la sua parte, se hai di più ti occupi anche degli altri, di coloro che non possono lavorare si deve occupare la società, c’è scritto nel Corano, spiega. E non so se questo è vero, forse non lo sa nemmeno lui visto il Corano è scritto in arabo e lui l’arabo non lo conosce e non l’ha mai letto, ma così gli ha insegnato sua madre e così funziona il mondo che lui conosce da quando era bambino, ora quel mondo sta cambiando ma per ora quelle regole resistono. 
Ci lasciamo con una stretta di mano e lui si avvia lentamente dall’altro lato della strada mentre noi ci affrettiamo a raggiungere il porto per tornare in barca al nostro lavoro. Ammiro la loro capacità di non lasciarsi toccare troppo dalla vita, oggi è oggi, domani è domani e di ciò che accadrà domani ci si occuperà in quel momento; noi invece corriamo continuamente verso qualcosa che è là da venire, in perenne affanno.

Camminando verso la barca, non posso fare a meno di pensare a quanto diverso sia il loro modo di affrontare la vita. Mufeed, con quel gesto semplice e naturale di prendersi cura di un uomo che non è in grado di farlo da solo, rappresenta un modo di vivere che da noi si è perso.
Questa città, una piccola capitale in continuo fermento, dove il moderno si mescola al tradizionale in un intreccio complesso e affascinante, sta viaggiando alla velocità della luce verso il futuro. Quanto resterà di queste tradizioni? Della cultura da cui provengono?
Noi occidentali, siamo abituati a vivere in moto perpetuo, sempre alla ricerca di qualcosa di più, qualcosa di meglio. Non siamo mai soddisfatti, ci sembra sempre che ci manchi qualcosa. E così continuiamo a correre, senza fermarci mai, senza prenderci il tempo per respirare davvero, per vivere davvero. Qui, in questo piccolo angolo di mondo, c’è ancora una forma di saggezza d’altri tempi. Un’accettazione della vita per quello che è, con i suoi alti e bassi, con le sue gioie e le sue inevitabili sofferenze. C’è una serenità, una capacità di vivere il presente, che mi manca. Se solo riuscissimo a smettere di cercare di controllare ogni aspetto della vita e della natura e a trovare la bellezza e la soddisfazione in quel poco che ci circonda… ma l’umano ne sarà mai capace?
E loro saranno capaci di non imitare anche i nostri difetti?

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Leggi il CAPITOLO 10

4 pensieri riguardo “Riflessi di Oceano – Capitolo 9

  • Le loro sale da Te’ esclusivamente per uomini …. quando ci entravo con il tassista e sentivo gli occhi che mi guardavano in quel buio …una descrizione perfetta!!!
    ma non ho mai rinunciato ai loro stuzzichini con il te’ quello mai ❣️

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    • Donatella Moica

      Cara Fulvia, quanti ricordi riemergono quando si comincia a scavare nella memoria, eh…

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  • Michele Rescigno

    È bellissimo !! Uno spaccato di vita e di saggezza semplice, senza sovrastrutture che riesco a recuperare ogni volta che salgo a bordo e che mi accompagna anche al ritorno prima di essere di nuovo risucchiato nella “centrifuga”

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    • Donatella Moica

      Caro Michele, grazie!
      Oggi la vita alle Maldive è più complicata e frenetica di allora, però alla “centrifuga” non ci sono ancora arrivati. Certo che per noi è un “recupero” di un tempo vero che non c’è più altrove. E in barca si vive pure in un’ora che non c’è altrove, hihihihi.
      Grazie ancora e a presto.

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