Riflessi di Oceano – Capitolo 8
Capitolo 8
Non so da quanto tempo mi trovo qui, non so tra quanto tempo me ne andrò. Nelle isole si ha quasi la sensazione di vivere in un tempo sospeso, un tempo che non esiste. Quelli che tornano a casa riportano lo shock e la fatica di adattarsi nuovamente alla normalità dopo una sola settimana di Maldive. Per noi che restiamo, di settimana in settimana, tutto quello che queste isole hanno di potente e travolgente invade gli occhi, entra sotto pelle e, piano piano, ti fa ammalare. La sera, un pensiero ribelle mi tiene sveglia: “cosa stai facendo qui? Da quanto tempo sei su questa barca? Quanti anni sono passati?”
Il nuovo safari comincia senza il cuoco. Se n’è andato, annuncia Shareef.
“In che senso, se n’è andato?”
“Ki kurani…“
“Come “ki kurani”? Cosa vuol dire: cosa possiamo farci?”
Questa frase rappresenta in modo perfetto il fatalismo maldiviano. È una vera e propria filosofia: quello che accade, accade. Non è possibile controllare tutto ciò che avviene nell’universo, e quindi non bisogna nemmeno prendersela troppo.
“Ne arriverà un altro, vedrai che lo trovano, dai tranquilla, c’è sempre San Turismo che risolve tutto,”
Dice Stefano con la solita calma che è in grado di trovare in queste situazioni. A volte mi chiedo come faccia, come ci riesca… Io, invece, mi sento travolta dall’ansia. Ogni giorno abbiamo un nuovo problema da gestire, sono stanca! E già mi vedo chiusa in cucina con tutto quel caldo; la cucina è grande appena due metri per tre, forse meno. Insomma la cucina della Wattaru è minuscola.
“Coraggio, non è così grave! Stai esagerando!”
“Proprio ora che aveva imparato a cucinare discretamente se ne doveva andare, cavolo! Tutta la fatica fatta per insegnargli, e non ha nemmeno salutato!”
“Occupiamoci degli ospiti, dai! Non vorremmo mica preoccuparli dicendo che non abbiamo più il cuoco? E poi Shareef ha detto che lo stanno cercando. Sono sicuro che lo troveranno.”
“Com’è che un cuoco se ne va così?”
“Ah, lo fanno! È abbastanza normale, si stancano e se ne vanno. Intanto Abdullah può occuparsi del pranzo.”
“Abdullah pulisce le cabine, è il “room boy”, non è il cuoco ed già è stato difficile insegnargli quel lavoro.”
“Vabbè, è anche bravino a cucinare, prepara un buon curry. Oggi è previsto il fried rice, è facile da fare, no? E poi domani vediamo”
Già, una ricetta facile che tutti sanno fare. Basta tagliare le verdure — carote, porri e cavolo cappuccio — a julienne e farle soffriggere in padella, aggiungere il riso già lessato e amalgamare tutto con la salsa di soia. Poi, a parte, si cucinano le uova strapazzate e infine si aggiungono al riso.
“Okay, parla con Shareef perché metta Abdullah in cucina. Tanto se lo dico io non mi da retta.”
“Lo sai che per loro è difficile ricevere ordini da una donna. E con te sono tutti gentili, ti ascoltano…”
“Sarà…”
”Coraggio, lo so che certi problemi sembrano insormontabili, ma non lo sono, vedrai…”
Shareef mi offre la solita tazza di caffè solubile e mi sorride gentile. Lo so che cerca di incoraggiarmi anche lui, ma ricominciare da zero con un nuovo cuoco a metà stagione mi riempie di ansia. Temo di non farcela. Salgo sul dhoani per andare in aeroporto con un nodo che mi chiude lo stomaco, ho il presentimento che non sarà così facile come vogliono farmi credere.
Al ritorno a bordo con i nuovi ospiti, Shareef annuncia che hanno trovato un cuoco. È un ragazzo tamil di Sri Lanka.
“E che esperienza ha?”
“I don’t know.“
“Ma sa cucinare?”
“Aharen neyngey.”
“Come: non lo sai?” ma qualcosa saprà fare se è stato assunto come cuoco, no?”
I tamil arrivarono a Sri Lanka come coltivatori della pianta di tè, la Camellia sinensis. Furono gli inglesi a portarci la pianta e, per avere spazio per le piantagioni, disboscarono e uccisero migliaia di elefanti. Poiché avevano bisogno di molta manodopera, forzarono la popolazione tamil a trasferirsi dall’India. La minoranza Indù si stabilì fin da subito nella parte nord-ovest del Paese, che ancora si chiamava Ceylon. Quando nel 1948, Ceylon divenne indipendente, le tensioni tra le due etnie esplosero, portando alla luce le discriminazioni di cui erano oggetto i tamil negli ambiti sociali più vasti, come la salute, la libertà di parola o di professione della fede. Nel 1976, le tensioni si fecero più accese, e si formò un gruppo armato, conosciuto come le Tigri Tamil, che chiedeva l’indipendenza della parte nord dello Sri Lanka dalla parte sud. La reazione del Governo fu dura. Interi villaggi furono rasi al suolo, migliaia di persone sfollarono, molti si rifugiarono in India e in tutti quei Paesi limitrofi disposti ad accoglierli. La reazione delle Tigri non fu meno violenta: attacchi suicidi, bombe e attentati di ogni genere. La lacrima dell’India, altro nome con cui si conosce lo Sri Lanka, lacrimava per davvero, e per molti anni portò cicatrici evidenti di quella guerra civile: fame, povertà, distruzione e isolamento. I cingalesi espatriavano per cercare lavoro e una vita migliore. Alle Maldive, non trovavano, forse, una vita migliore, ma certamente salari migliori che consentivano loro di mantenere la famiglia a casa.
Il nostro tamil arriva a bordo nel pomeriggio, mentre noi siamo sott’acqua.
What’s your name? How are you? What can you cook?
Sorride ma non risponde. Sembra muto, ma non lo è. Semplicemente non capisce una parola di quanto sto dicendo. Abdullah, Ahmadu e Moussa provano a parlargli in dhivehi, cercando di carpire le stesse informazioni, ma il silenzio continua. Senza la parola, come potremo comunicare? A gesti? Forse…
“Va bene, rimbocchiamoci le maniche. Stasera cucineremo insieme la pasta e vediamo come te la cavi.”
Tanto vale parlargli in italiano visto che non capisce comunque.
L’equipaggio trova la vicenda esilarante e non si staccano dalla coppia io-che-parlo-lui-che-annuisce-ma-non-capisce.
“Prepariamo il soffritto di odori, la cipolla, l’aglio… understand? Ora apri i barattoli di pomodori pelati. Questi sono i pomodori pelati. Non serve guardarli, non si aprono da soli, devi farlo tu! E voi smettetela di ridere. Okay, prendiamo un apriscatole, si fa così! Non lo sai fare? Oddio, siamo messi bene. Abdullah, show him how to do! Senza ridere, per favore.”
Abdullah, lungo e magrissimo, è piegato in due dalle risate. Il ragazzo-tamil-che-non-parla continua ad annuire con la testa nel gesto tipico dei cingalesi, ma non ha capito nulla. Sembra di essere su “Candid Camera”!
“Ma chi ti ha mandato qui? E che ne sai tu…”
Alla fine, la cena è pronta, e a tavola non avanza nulla. Guardo in faccia Abdullah e Ahmadu, che ancora ridono, e penso che domani è un altro giorno, come Rossella O’Hara, basta non perdere la speranza.
La mattina dopo, a colazione, le cose vanno un po’ meglio. Con l’aiuto di Abdullah, il ragazzo-tamil-che-non-parla riesce a preparare i rothi, il tipico pane maldiviano fatto solo con farina e acqua e cotto sulla piastra, che assomiglia alle nostre piadine ed è l’equivalente del chapati indiano. Cerco di spiegargli che per il pranzo prepareremo insieme un risotto al fiore di banano e gli chiedo di preparare gli ingredienti perché siano pronti al rientro dall’immersione. Glieli mostro anche: cipolla, fiore di banano…
“vanno solo tagliati a fettine sottili. Poi prepariamo un brodo vegetale…”
Lui mi guarda temendo i grandi fiori di banano viola scuro in mano e facendo ciondolare la testa in quel moto circolare che significa sì…
Vabbè, ma che mi sforzo a fare, questo non capisce una parola.
“ Aspettami e quando torno vediamo.”
Ci immergiamo a Ukulas Thila, a nord di Ari. La corrente è forte, la visibilità ridotta, ma ci arrivano incontro le mante giganti. Nonostante la loro mole, si muovono nella corrente senza fatica, a passo di danza. Guardarle da un senso di pace e di eleganza. Le pance bianche lucenti, le bocche aperte, i rostri che si avvolgono davanti alla bocca per convogliare più acqua possibile e quindi riuscire a filtrare più plancton possibile. È per quel cibo fatto di micro animali che sono lì, non certo per noi. Cerchiamo di non disturbarle o spaventarle, respiriamo lentamente, ci muoviamo poco, le guardiamo ammirati. Loro passano sopra le nostre bolle, si allontanano, risalgono la corrente, ritornano… in un incredibile carosello senza musica e senza parole. Prima una, poi due, poi tre, poi quattro, sono cinque… volteggiano, ruotano in loop, ripartono, si riavvicinano… sono talmente affascinanti che non si uscirebbe mai dall’acqua quando le si incontra. Ma poi arriva il momento in cui bisogna andare per forza…
Mi tolgo la muta. Salgo in barca ancora in costume da bagno ed entro in cucina. Scopro subito che il ragazzo-tamil-che-non-parla ha preso sul serio le mie indicazioni di preparare gli ingredienti, ma non avendo capito bene quali fossero e cosa farci, e avendo finalmente imparato a usare l’apriscatole, ha aperto tutti i barattoli che ha trovato: piselli, pomodori, lenticchie, tonno e fagioli. Su ogni appoggio ci sono scatole col coperchio sollevato. I marinai si sganasciano dalle risate. Io mi arrabbio. Ma la loro risata è contagiosa. E alla fine rido anch’io, perché la scena è davvero comica: la cucina di una barca completamente invasa da barattoli aperti. Ma subito dopo mi prende lo sconforto.
“Che cosa ne facciamo adesso di tutto questo cibo? Capisco che hai fatto pratica con l’apriscatole, ma questa roba doveva durare tutta la settimana, era la nostra cambusa. Era, appunto.
“Ki kurani…” fanno i marinai in coro.
Stefano perde la sua calma e si arrabbia, moltissimo. I marinai smettono di ridere, ma dentro di loro so che stanno ancora sghignazzando.
“Ki kurani…” continuano a ripetere, in modo esasperante. Sì unisce anche Shareef che cerca di calmare le acque e dare un contributo a trovare una soluzione.
Il cuoco-tamil-che-non-parla-e-non-capisce si intristisce. Lo vedo abbassare lo sguardo, forse rendendosi conto di aver combinato un pasticcio. Ma c’è una certa tenerezza nella sua confusione, un’innocenza quasi.
Alla fine, io e Abdullah ci mettiamo ai fornelli insieme per il resto della settimana. La soluzione più ovvia e che temevo sin dall’inizio. Cuciniamo per tutti, mentre il cuoco-tamil-non-più-cuoco lava il ponte e tira su l’ancora, apparentemente felice di aver trovato un compito che può gestire meglio. Almeno, sembra sollevato dal non dover affrontare più barattoli e apriscatole.
La storia del ragazzo-tamil-che-non-parla si diffonde con la radio, l’equipaggio della Wattaru lo racconta a quello della Moonima che lo racconta a Leuro, il quale appena può viene a bordo per farsi raccontare la storia per filo e per segno e ancora una volta tutti ridono, persino il ragazzo che non è più cuoco ride di se stesso senza sapere di farlo.
A fine settimana, quando i nuovi ospiti sbarcano, il ragazzo tamil scompare. Non lo rivedrò mai più, e nessuno sembrò incontrarlo più in giro a Malè, una città piccola dove tutti sapevano tutto di tutti. Forse aveva trovato un altro lavoro, forse era finito a fare lo scaricatore nel porto o chissà dove. Aveva provato a fare il cuoco, certo un mestiere migliore, meno duro, ma non era riuscito. O, forse, io non avevo fatto abbastanza per insegnargli.
Leggi CAPITOLO 7
❣️
… il “ fascino” delle Maldive!
… unico al mondo!
Mi hai fatto venire in mente Ukulas thila con i suoi correntoni una imnersione che era d’obbligo negli anni 90.
Proprio così… grazie Bruno!
Ci lasci con l’affascinante scualo balena e ti ritroviamo alle prese con il cuoco che non capisce e una cucina da mandare avanti, certo che il tempo per annoiarsi non c’era in questa nave… comunque devo dire che il problema del cuoco lo avete risolto, adesso si mangia benissimo sulla nave…
Direi che ho sperimentato poco la sensazione della noia nella mia vita… ahahahahah
Donatella cara, quanta strada avete fatto anche da questo punto di vista … i meravigliosi pasti luculliani a bordo delle vostre barche non si dimenticano ma quanta tenerezza in questo tuo racconto
Cara Monica, provo molta tenerezza per la ragazzina che si è lanciata senza paracadute nella più grande avventura della sua vita, ma anche molta tenerezza e gratitudine verso le Maldive e verso tutte le persone con cui ho/abbiamo navigato fino a qui, fino a ciò che siamo ora…
Grazie di essere in viaggio tra queste pagine.
Un abbraccio e a presto