Le mie Maldive

Riflessi di Oceano – Capitolo 6

Capitolo 6

Le Maldive sono una nazione fatta di mare, punteggiata da circa milleduecento perle di sabbia. Ogni perla è viva, respira al ritmo delle onde e del vento, cambia forma, si trasforma. Alcune scompaiono sotto l’abbraccio dell’oceano, altre riemergono come tornate da un lungo viaggio. Definire un’isola maldiviana è un atto di poesia, perché le isole, come i sogni, sfuggono a una definizione rigida e precisa. Un’isola è il luogo dove cresce una palma solitaria, radicata nella sabbia bianca come un faro che sfida il cielo, o è quella che ne ospita molte, come un’oasi? Un’isola è, allora, dove c’è vegetazione, dove la vita si aggrappa a ogni granello di terra. Un’isola è dove ci puoi abitare, dove i segni della presenza umana si intrecciano con quelli della natura in un equilibrio incerto. Un’isola è qualcosa che rimane, nonostante il mare, nonostante il tempo. Le isole sono le parole di un poema scritto dal mare, dove ogni verso si compone e si dissolve con il ritmo della marea, trascendendo il tempo umano.

Ma un’isola è anche molto di più. È un rifugio, un universo a sé stante, dove il tempo sembra rallentare, dove i confini chiari e tangibili impongono un limite alla partenza e uno sprone a navigare e scoprire nuove terre. Se è difficile partire da un’isola, il desiderio di farlo può essere sconfinato, un viaggio che può essere tanto fisico quanto interiore. Il mare, che circonda e protegge, connette le isole tra loro e con il resto del mondo. È l’elemento che separa, ma anche il ponte che invita al viaggio, che promette scoperte e avventure, ma che alla fine riconduce sempre alla riva di un’altra isola. 

Come è capitato a me, partendo dalla Sardegna, un’isola che mi stava stretta, sono approdata in una ghirlanda di isole infinitamente più piccole.

L’amministrazione di una nazione fatta di isole sì vive e mutevoli è un compito complesso. Il Presidente Gayoom ha cercato di riunire le piccole comunità nelle isole più grandi per poter garantire i servizi essenziali, come la scuola e l’infermeria. Ma spostare le persone dalle loro isole, dai loro piccoli mondi, è una richiesta che sfida l’essenza stessa dell’esistenza di un’isola: la connessione intima e profonda con la terra, il mare e i ritmi naturali che hanno plasmato generazioni.

Per molti anziani, l’isola di origine non era solo un luogo geografico, ma un’estensione di sé stessi, un terreno su cui le storie di famiglia erano intrecciate con la sabbia e il corallo, e dove ogni palma, ogni granello di sabbia, portava il peso della memoria. Lo sradicamento ha significato non solo lasciare una casa, ma abbandonare parte della propria identità. È stato come strappare un albero dalle sue radici secolari, trapiantandolo in un terreno nuovo, fertile ma estraneo. La vita può continuare, sì, ma c’è sempre un senso di perdita, un vuoto che resta.

Eppure, ci sono riusciti. Con promesse di un futuro migliore e utilizzando i proventi che il turismo aveva cominciato a portare, hanno costruito moschee, porti, scuole e infermerie nelle isole più grandi, creando nuovi centri di vita aggregati. Con il progresso venivano anche benefici concreti, posti di lavoro, salari più alti. Agli inizi degli anni ‘80, le Maldive sono uno dei venti Paesi più poveri del mondo e sopravvivono con gli aiuti della FAO, oggi sono tra i più ricchi del sud-est asiatico.

Le nuove scelte del Governo fanno fare al Paese un salto quantico in avanti inaspettato. Dove prima ci si affidava al sapere tramandato oralmente e alla generosità della natura, ora c’erano scuole che insegnavano quelle leggi che regolano l’ordine naturale e il modo per creare tecnologie da usare per le proprie necessità. Le infermerie garantivano cure mediche che un tempo erano impensabili, salvando vite che altrimenti sarebbero state perdute. Le persone non dovevano più viaggiare per giorni su piccole imbarcazioni per ottenere cure o istruzione; queste erano diventate parte della loro vita quotidiana. Ciò che fino a pochi anni prima era possibile solo per chi abitava nella capitale e che aveva creato disuguaglianze sociali ed economiche importanti, stava per diventare disponibile per tutti. Tutte le bambine e tutti i bambini potevano frequentare una scuola, imparare a leggere e a scrivere, apprendere le lingue straniere ed esplorare i misteri della scienza e della tecnologia.

Il progresso e il turismo stavano lentamente trasformando quei luoghi in nuovi mondi dove le nuove generazioni avrebbero avuto accesso a una conoscenza che i loro antenati non avrebbero mai potuto immaginare, una conoscenza che avrebbe aperto loro le porte di un mondo più grande ma molto più difficile. Mentre i vecchi cercavano un nuovo senso di appartenenza, pur sapendo che una parte della loro identità stava rimanendo irrimediabilmente indietro.

Su ogni isola una cabina telefonica, un filo invisibile che lega la gente al resto del mondo, un ponte tra l’intimità del microcosmo e l’immensità del pianeta. 
La cabina ha un suo numero telefonico a cui farsi chiamare. All’esterno c’è sempre la fila, anche perché le chiamate locali costano poco e, non avendo altre distrazioni, le persone telefonano. Chi sta in fila ha pazienza e aspetta, magari seduto sulla panchina sotto una palma, e ascolta le piccole e grandi storie sentite all’altro capo del filo de chi lo ha preceduto. 

Una volta a settimana anche noi facciamo la fila per parlare con le nostre famiglie in Italia, ma se le chiamate nazionali costano pochissimo, quelle internazionali sono costosissime, per cui chiediamo che ci lascino passare. Acconsentono senza troppa fatica, sapendo che saremo brevi. Con una scheda da cinquanta Rufye fai poco; già con cento riesci a parlare per qualche minuto. Le conversazioni sono concise ma intense, bisogna sintetizzare tutto, eliminare gli aggettivi, dire solo l’essenziale.

“Ciao mamma, come stai? Io sto bene. Qui va bene. I mesi passano ma ogni giorno resta un’avventura. Il tramonto è tutto d’oro e il sole cade all’improvviso nel mare, che si trasforma in un lago rosso fuoco. Le spiagge sono di sabbia bianchissima, che non brucia i piedi quando ci cammini, non come le nostre in Sardegna. Sott’acqua ci sono tantissimi pesci e creature fantastiche che non ti puoi nemmeno immaginare. Sì, mangio, non preoccuparti. Il cibo è buono, tranquilla. Abbiamo anche la pasta. Mi manca il caffè, ma bevo il tè, quello di Ceylon, delle piantagioni create dagli inglesi durante la colonizzazione. Sì mamma, è un popolo gentile e non ci sono pericoli di criminalità qui. Non ho ancora imparato la lingua, è molto difficile. Parlo in inglese, ma non sempre mi capiscono. La scheda è quasi finita…”.

Clic…

“A volte mi viene la malinconia, e nemmeno tutta questa bellezza riesce a curarla, mamma. E per fortuna è caduta la linea e non puoi sentire la mia voce che trema, perché stare qui è anche tanto difficile, e la sera sono così stanca che ho paura di non farcela ad alzarmi il giorno dopo. Mi mancano gli amici, poter andare in una libreria o a teatro, mi manca l’università, mi mancano i libri, lo studio… c’è Stefano e c’è il mare, ma in certi momenti, come ora che fuori è quasi notte, non bastano.

Una donna molto giovane con un bambino piccolo in braccio bussa al vetro della cabina.  
“Sorry,” dico uscendo.  
Lei sorride e si richiude la porta alle spalle.
Respiro l’aria della sera. Ci sono pochi stranieri nelle isole, quasi tutti lavorano nei resort in posizioni apicali e pochissimi nelle barche da safari. Eravamo una rarità, e in quanto tali, oggetti di curiosità.  

Haalu kihineh?”  
La voce viene da un vecchio pescatore seduto sotto un grande albero che ospita sotto la sua chioma anche la cabina telefonica e la lunga fila di persone in attesa.  
Barabaru. Sto bene, sì, mi sembra di sì.”  
“Dhivehi vahaaka dhakanee?”  
“Kuda kuda. Lo parlo poco il dhivehi, mi piacerebbe parlarlo di più ma so poco, però imparerò, mi sto impegnando per imparare…”
“Kaku gulhani?”  
“My mum.”
Chiamavo mia mamma in Italia, ma è finita la scheda, vorrei dire. Ma non so come dirlo
Il pescatore alza il viso scolpito dal sole al cielo, come se dicesse “ho capito tutto”. Mi fa cenno di sedere accanto a lui, ma io devo tornare sulla Wattaru. Sollevo le braccia e faccio no con la testa. Allora mi porge un sacchetto di semi simili a pinoli e indica l’albero sopra di lui, dove svolazzano parecchie volpi volanti, i grandi pipistrelli vegetariani che qui sono ovunque e che si nutrono di quei frutti.  
Shukuryaa.”
Ringrazio e lui sorride solo con gli occhi senza muovere nessun’altra ruga.

Ahmadu è in spiaggia che mi aspetta. Quando mi vede, accende il piccolo motore del dhinghy e poi viene verso di me per aiutarmi a salire.  
Kihineh vee?”  
“Non è successo nulla, tranquillo, sto bene.”
L’aria fresca della sera porta con sè l’odore del curry preparato nelle case e il suono del generatore acceso che alimenta le luci tremolanti e fiocche. Lascio la terraferma per tornare alla mia casa galleggiante. Una luna gigante si specchia nel mare.

Il tavolo è già apparecchiato, finalmente hanno capito come si fa.
Scendo in cabina a lasciare il mio zaino, e quando torno in coperta, Ahmadu mi ha fatto preparare una tazza di tè nero con scaglie di zenzero fresco e tanto zucchero.  
It’s a good medicine.”
Gli sorrido e apprezzo. In fondo ha ragione, una buona tazza di tè dolce e speziato cura qualunque malattia, sia essa la stanchezza del corpo o la nostalgia. E mentre il mare culla la barca, mi accorgo che, tra il vecchio e il nuovo, tra il rimpianto e la speranza, anch’io sto cambiando. 

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Mi scuso con il popolo delle Maldive per la scrittura del dhivehi che non sarà sicuramente corretta!

4 pensieri riguardo “Riflessi di Oceano – Capitolo 6

  • Siamo nati nella vecchi Europa… tanta storia tanta cultura tanta storia …. e siamo Italiani tanta famiglia.
    Uscire dal Paradiso maldiciamo è legato solo alle nostre origini un altro motivo non c’è.

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  • Certo che forza e coraggio hai avuto è normale che a un certo punto la malinconia arrivi, la paura di aver perso qualcosa,la normalità di tutti i giorni, l’università gli amici andare a teatro,per un qualcosa che tutti sognano,ma viverlo è tutt’ un’altra cosa… bello nel tuo racconto rendi benissimo l’idea… grazie per scrivere ancora e renderci partecipi di tutte queste emozioni…

    Rispondi
    • Donatella Moica

      Tutte le emozioni fanno parte della vita! È stata una grande avventura, non sempre facile.
      Grazie, Paola, di cuore.

      Rispondi

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