Le mie Maldive

Riflessi di Oceano – capitolo 14

Capitolo 14

Il nostro viaggio di ritorno è iniziato. Abbiamo riattraversato il canale tra Addu e Huvadhoo, superando l’equatore di notte. Non c’è luna, solo un cielo gremito di stelle. Dall’oblò aperto sopra il letto ne intravedo qualcuna, ma il sonno arriva in fretta. Questa volta non mi accorgo nemmeno del passaggio tra l’emisfero sud e quello nord.

Non conosciamo le immersioni sulla rotta, salviamo quelle migliori fatte durante il viaggio di andata ma desideriamo provarne di nuove. I nostri ospiti adorano l’idea di essere tra i primi a immergersi in certi siti e sperano che si rivelino straordinari e ricchi di incontri. Non tutti i tentativi si rivelano memorabili, ma ogni tuffo è un’esperienza che si stratifica in quel mosaico di immagini e sensazioni che costituisce il viaggio. 

Conoscendo poco, o nulla in certi casi, le caratteristiche del fondale non siamo in grado di prevedere l’andamento delle correnti e nemmeno la vita marina. L’acqua si muove seguendo la morfologia del fondale ed è quindi una variabile importante per capire cosa succederà sott’acqua. Per limitare l’azzardo scegliamo sulla carta nautica, soprattutto, pass oceaniche il cui gradino si trovi tra la profondità di trenta e quaranta metri e abbia angoli netti. Così pensiamo che la corrente si comporti come negli atolli che conosciamo meglio ma il ragionamento non sempre funziona; influisce moltissimo anche l’inclinazione della pass rispetto alla direzione delle correnti oceaniche e di marea, insomma prevedere cosa succederà sott’acqua senza un’esperienza diretta di molte immersioni nell’area è molto difficile. Quindi che si fa? Ci buttiamo e lo scopriamo!

Ci immergiamo nella pass di Nilandhoo. Il gruppo è esperto, abbiamo subacquei e subacquee che si immergono da molti anni e si muovono lentamente e con eleganza nell’elemento. La corrente non è molto forte e ci consente di arrivare sul gradino senza sforzo. Ci siamo buttati a sud e prevediamo di risalire il gradino verso l’angolo nord da dove arriverà il gruppo di Stefano. L’acqua è limpida e, nonostante la profondità, la visibilità è buona. Un banco di giovani barracuda ci sfreccia accanto, compatto e teso come un’onda in fuga. Ci aspettiamo i predatori alle calcagna, ma non appaiono. Probabilmente sono venuti verso di noi proprio per allontanarli. E’ una strategia di sopravvivenza: se c’è un animale più grande che potrebbe predare il predatore, questo si  dilegua. 
Ci spostiamo verso l’angolo della pass e, all’improvviso, la vedo: un’ombra scura, immobile sul fondo. Non può essere quello che penso, è troppo grande. Faccio un cenno con lo shacker, indico la sagoma e ci avviciniamo con cautela. La creatura rimane ferma, le pinne pettorali che ondeggiano appena nella corrente, il corpo massiccio e le labbra carnose leggermente socchiuse. Non ci sono dubbi: è una cernia, ma è grande quanto una Fiat 500!
Ci avviciniamo ancora, trattenendo il fiato per non spaventarla. Lei ci fissa per un istante e poi, con un movimento improvviso e inaspettatamente agile per un animale di quelle dimensioni, sparisce sotto il gradino della pass, inghiottita dalla roccia. Resto a fissare il punto in cui si è dileguata, ancora incredula. Ci guardiamo, e vedo nei volti dei sub lo stesso stupore che sento io. Mi chiedo se si rendano conto di quanto sia raro un incontro simile.
Sono così felice che sorrido attraverso maschera ed erogatore, mentre gli altri continuano a guardarmi cercando di capire cosa abbiamo visto esattamente. 

Una volta a bordo, corro a prendere il mio libro sui pesci ossei tropicali, uno di quelli di Helmut Debelius che per me sono come i Vangeli, in quegli anni. Sfoglio freneticamente le pagine, trovo l’immagine: Epinephelus lanceolatus. Leggo ad alta voce: “Può raggiungere i tre metri di lunghezza e quattrocento chilogrammi di peso. Il pesce osseo più grande che esista”. I miei subacquei annuiscono, eccitati.
“Quindi è ufficiale… l’abbiamo vista davvero!” esclama uno di loro.
“Sì, una fortuna incredibile.” Dico con un sorriso.

Ecco, un altro di quei momenti che ti restano dentro per sempre.

Quella notte dormo male, continuo a pensare alla cernia: se non avessi testimoni mi sembrerebbe di aver sognato. Capiterà ancora, capiterà altre volte che gli incontri siano così straordinari da farmi pensare di essermi sognata tutto, per fortuna sott’acqua non si va mai soli e c’è sempre almeno un testimone con te che garantisce di non aver avuto un’allucinazione.

Il nostro viaggio verso Malè prosegue. rifacciamo la rotta inversa, ogni tanto deviamo un po’ per poterci aprire allo stupore che possono regalare i posti nuovi. Le immersioni più belle sono le stesse che erano state le più belle nella discesa e, a parte la nostra grande cernia, non ci sono altre sorprese inattese. Ma siamo felici così.

Torniamo a Malè dopo un mese di assenza. Ci sono dei piccoli lavori di manutenzione ordinaria che vanno assolutamente fatti sulla barca e sul dhoani. Se ne incaricano Stefano e Shareef mentre io devo pensare al supply, dobbiamo rifare tutte le scorte in dispensa visto che non abbiamo più nulla. I miei subacquei faranno l’ultima immersione insieme al gruppo di Stefano sul Victory, il relitto di una nave cargo affondata nei primi anni ottanta al centro della pass. Un po’ mi spiace non immergermi visto che il sito e molto ricco di fauna e coralli. Mentre i subacquei vanno a fare immersione col dhoani, la Wattaru si dirige direttamente in porto. Salto giù dalla barca e corro per il porto con Muinu che mi assilla di domande sul sud: le isole, la gente, dove trovavamo il cibo. Rispondo come posso nel mio dhivehi imperfetto, mentre scivoliamo da un mercante all’altro comprando riso, verdure, pesce e scatolame.
Torniamo in banchina che il cielo è colorato di rosso e il muezzin ha già cominciato il richiamo della sera. Il pick-up è colmo e io sono stanca morta. Vorrei solo potermi fermare a guardare il tramonto, ma ci sono ancora mille cose da fare. Sistemo tutto con l’equipaggio e poi, finalmente, mi lascio scivolare sulla sdraio. Il cielo si spegne piano sopra di noi ed è bellissimo, come ogni volta.

L’ultima sera offriamo sempre un pasto speciale per quanto possiamo e per quanto ci consentono gli ingredienti che abbiamo. Ma è la cena di saluto e merita di essere una festa in cui si celebrano i doni del mare, la bellezza del nostro pianeta e le amicizie che si sono create. Stefano è ancora alle prese con i compressori, la cui cura è indispensabile per caricare le nostre bombole subacquee. Mi chiede com’è andata con gli acquisti senza staccare le mani da ciò che sta facendo e io lo rassicuro.
“Abbiamo tutto quello che ci serve. Tu, a che punto sei? È quasi ora di cena…”
“Finisco dopo. Ti raggiungo nella doccia…” sorride e sorrido anch’io e scendo a fare la doccia. 

L’ultima serata è sempre molto allegra, c’è sempre qualcuno che fa una sintesi dei momenti più emozionanti o più divertenti; c’è spazio per i ringraziamenti, per gli applausi all’equipaggio e per i “torneremo presto” sinceri. E’ il momento in cui la fatica del giorno lascia il posto alla gratificazione: insegnare ad ascoltare il respiro del mare, la bellezza che esso porta in sé, l’importanza di amarlo, di proteggerlo è qualcosa che ripaga di tutto.

Dopo cena gli ospiti scendono in cabina alla spicciolata, qualcuno finisce la valigia, altri andranno direttamente a letto. Stefano sta raccontando le nostre avventure dell’ultimo mese a suo padre che è venuto a trovarci dalla Moonimaa ancorata poco lontano mentre finisce la manutenzione dei compressori. Io vorrei solo andare a letto ma devo approfittare dell’acqua dolce del porto per fare il bucato, tutte le magliette del mio piccolo guardaroba sono sporche e non ho più nulla da mettere. Prendo i panni sporchi, mi dirigo sulla poppa della barca con bacinella e detersivo in polvere – l’unico che c’è – strofino e risciacquo, risciacquo e strofino. Nel frattempo gli ospiti dormono tutti e Shareef ha spento il generatore. Da questo momento si potranno usare solo le piccole lampadine a batteria, nelle camere e nei bagni. C’è solo il suono del movimento del mare e le voci basse di Stefano e Leuro sul dhoani, tutto il resto tace. Rimango seduta per un po’ con le gambe fuori dalla poppa e i piedi nell’acqua. Sarà la stanchezza, sarà questo cielo così bello ma non ho nessuna voglia di muovermi. Devo fare ricorso a tutte le mie ultime energie per alzarmi e dirigermi verso la prua dove un filo teso mi permetterà di stendere il mio bucato profumato. E’ tutto buio ma conosco la barca alla perfezione, so di dover stare attenta agli oblò che saranno aperti per arieggiare le cabine, so che ci sono corde e altri ostacoli. Li vedo con la memoria anche se non li vedo con gli occhi, sia per il buio sia a causa della bacinella in mano. 
Qui c’è l’oblò della cabina centrale, devo fare un passo più lungo e… 
e la gamba sprofonda nell’oblò aperto. La bacinella vola, le mani cercano disperatamente un appiglio. Sento solo un dolore acuto e sordo, come una lama che trapassa la carne.
Forse ho urlato. 
Sento le braccia di Stefano che mi sollevano da quel buco in cui sono caduta. 
Forse sto piangendo. 
Voci mi parlano ma sono chiusa in una bolla, non riesco a rispondere. Sento solo dolore a entrambe le gambe.
Ora sono stesa supina e qualcuno mi chiede di muovere le gambe. Lo faccio.
“Non c’è nulla di rotto.” Sento dire.
Apro gli occhi e vedo il viso preoccupato di Stefano e quello dispiaciuto di suo padre.
“Cosa combini, ragazzina? Così ci fai prendere un infarto…” sorride dolcemente. 
“Mi dispiace…”
“Macché ti dispiace, dispiace a noi! Ora cerca di stare tranquilla, vedrai che passa presto.”
“Dove ti fa male?”
“La coscia… la gamba… il piede…”

Il giorno dopo vedrò un medico indiano che si prenderà cura di medicare le ferite e mi dirà di continuare a mettere ghiaccio sulla coscia che si è ormai gonfiata e tumefatta. Mi dirà anche di stare a riposo il più possibile, se è possibile. Rimarrò fuori uso per un po’ e solo al ritorno in Italia, due mesi più tardi, scoprirò che la cornice dell’oblò di acciaio mi ha procurato una lesione molto grave del muscolo laterale della coscia destra che avrebbe avuto bisogno di un immediato intervento ma eravamo alle Maldive e gli incidenti non erano di così facile gestione in quegli anni. Mi porto ancora dietro i segni di quella lesione che non è stato più possibile risolvere. Sull’altra gamba invece c’erano solo ferite superficiali, che sebbene sanguinassero molto quella sera, si sono rimarginate velocemente.
Quello fu solo il primo di una serie di piccoli incidenti che avrebbero dovuto farmi capire che il mio corpo, e forse anche il mio cervello, erano arrivati al limite. Ma il viaggio aveva ancora da fare il suo corso, e io con lui.

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8 pensieri riguardo “Riflessi di Oceano – capitolo 14

  • Mauro Masciarelli

    Continuano a riemerge, questi ricordi.
    Hai avuto, coraggio, determinazione e il privilegio di vivere momenti speciali.
    Bello
    Grazie

    Rispondi
    • Donatella Moica

      Se ci penso è come se i ricordi non ci fossero, ma quando inizio a scrivere arrivano veloci come l’alta marea.
      Ho pensato che lasciarne traccia desse un senso più ampio che esonda dalla storia di una persona per abbracciarne altre e allo stesso tempo testimonia un momento in cui il “viaggiare” rappresentava una ricerca di scoperta e trasformazione che il turismo di oggi, spesso, dimentica.
      Grazie a te di essere ancora qui.
      Un abbraccio

      Rispondi
  • Bruno Perdonà

    Che racconto e che brutto incidente Donatella.
    Hai nominato il Victory che è nei miei lontani ricordi.
    Brava avanti..

    Rispondi
    • Donatella Moica

      Grazie Bruno!
      Mi sono presa una piccola pausa di decompressione dai ricordi ma tornerò presto…
      Un abbraccio

      Rispondi
  • Giuliana

    Un libro meraviglioso e pieno d’ Amore per tutto quello che fai e per le persone che ti sono care. Una storia vera che stai raccontando con tanto ardore come se gli anni non fossero passati. Vai avanti e vedrai che sarà un successone.
    AUGURISSIMI

    Rispondi

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