Riflessi di Oceano – Capitolo 13
Capitolo 13
Le voci allegre degli ospiti mi richiamano a poppa.
“Compriamole dai!”
“Ma sì, quanto vuole?”
“Cosa volete comprare?”
“Guarda là!”
Dietro la Wattaru c’è un barchino con la linea di galleggiamento a pelo d’acqua e un equipaggio composto di tre ragazzini. Parlano animatamente con Shareef e quando mi avvicino sollevano le assi del ponte per mostrare uno scafo pieno d’acqua, aragoste vive e una giovane tartaruga verde. Hanno fatto una buona pesca e ora cercano di venderla al prezzo migliore possibile agli stranieri. Shareef chiede a Stefano se siamo interessati. Lui mi guarda indeciso. Gli ospiti insistono.
“Dai compriamole.”
“Sai che spaghetti ci vengono!”
“Quanto vogliono?”
Stefano si rivolge direttamente al ragazzino più grande che sembra essere il comandante di quella ciurma.
Agu kihaavareh? Quanto vuoi, dice.
I ragazzini sparano alto, si vede, perché Shareef scoppia in una risata spontanea.
“Vogliono dieci dollari per ogni aragosta.”
Shareef interviene e comincia a trattare, argomentando in modo molto pacato come se stesse discutendo con un adulto.
“Compriamone una a testa, siamo dieci, cento dollari e affare fatto.” Dice qualcuno.
“Così non va bene” – dice Stefano – “se volete le aragoste per cena, trattiamo per averle tutte, inclusa la tartaruga. Come vedete ce ne sono tante molto piccole e altre con le uova. Teniamo quelle grosse per gli spaghetti e le altre le rimettiamo in mare.”
“Ottima idea!”
“Va bene!”
“Certo, è giusto, facciamo così!”
Sembra che siamo arrivati a una soluzione che accontenta tutti. Ora bisogna convincere i ragazzini a lasciarci tutto il loro pescato compresa la tartaruga che probabilmente vorrebbero portare a casa loro per la carne pregiata e per poter rivendere il carapace a qualcuno che ne ottiene monili preziosi. Pochi anni dopo le tartarughe verranno protette dalla legge e non sarà più possibile pescarle e mangiarle, tantomeno vendere oggetti fatti dal loro carapace. A seguito di questa legge, e in pochissimo tempo, le Maldive si ripopoleranno di tartarughe che oggi sono incontri quotidiani nell’arcipelago.
La trattativa continua per un po’. Il giovane comandante è un buon commerciante e non ha intenzione di farsi fregare dagli stranieri. Ottengono centocinquanta dollari; probabilmente molti di più di quelli che hanno mai realizzato da una battuta di pesca. Il giovanissimo capitano tende la mano, conta i soldi con un’aria di chi ha appena fatto l’affare del secolo con i turisti inesperti, poi infila le banconote nella tasca dei jeans scoloriti, ordina agli altri di scaricare tutto il pesce nel pozzetto di poppa della Wattaru. L’equipaggio li aiuta e Shareef ci fa cenno di non lasciar andare gli animali subito ma di aspettare che i ragazzi siano lontani. Il giovane comandante saluta Stefano con una stretta di mano rispettosa tra due pari che hanno concluso un’affare e posa il piede nudo sul timone per manovrare la sua goletta. Riprendono il mare soddisfatti, la vela alta, la prua verso la loro isola. Chissà come spiegheranno la loro impresa, la pesca fortunata e la vendita. Racconteranno, forse, di aver commerciato con degli stranieri sprovveduti oppure staranno zitti per tenersi il bottino e non doverlo condividere con nessuno. Il modo in cui un popolo si racconta, a volte, insegna tanto quanto il modo in cui vive.
La tartaruga non racconterà nulla ma non dimenticherà. Riprende il mare anche lei, immediatamente dopo che i ragazzi sono lontani sull’orizzonte, e con un semplice sbattere di pinne sparisce. Nemmeno il tempo di augurarle buona fortuna. Tratteniamo con noi quattro grosse aragoste senza uova che, probabilmente, non sono per nulla contente di essere le prescelte e che finiscono nel frigo. Le altre le trasferiamo in una capiente bacinella con l’acqua e le portiamo sul reef più vicino per liberarle. Le urla e gli schiocchi di coda delle aragoste quando le prendiamo in mano è straziante, non sanno che saranno presto liberate e il loro terrore è evidente. La paura della morte appartiene a ogni creatura, nessuna esclusa.
Riprendiamo la nostra navigazione, l’equatore ci attende. Programmiamo di passare di notte col favore del vento sperando che quella linea immaginaria ci dia un segno della sua esistenza, una motivazione in più per proseguire il viaggio che per qualcuno è solo una vacanza tra tante, per altri, come per me, è una ricerca che nulla ha a che fare con l’evasione e l’esotismo. Il percorso è diverso, più profondo, doloroso, a tratti, e persino difficile da descrivere e raccontare. Mi svuoto delle paure, delle maledizioni natali, per riempirmi d’altro, per essere altro. Il mondo non è quello che qualcun altro ha pensato per noi ma quello che ci costruiamo con le nostre esperienze. Viaggiare ti costringe a spogliarti di tutte le aspettative, di ogni struttura mentale preconfezionata, e ti sfida a riempirti di qualcosa di nuovo, di sconosciuto. È un risveglio lento, fatto di sensazioni che scivolano sotto la pelle, di incontri che lasciano tracce invisibili. Il mondo è fuori dai condizionamenti sociali, dagli schemi mentali e culturali. Per trovare il centro di se stessi bisogna mettersi alla prova e imparare a perdonarsi anche. Perdonare quel fallimento, quell’aspettativa delusa, quel trauma, la famiglia, gli altri, i luoghi dell’infanzia, una bambola perduta e mai ritrovata. Non siamo mica perfetti, anzi il contrario, un groviglio di imperfezioni che ciascuno cerca di districare facendo del suo meglio. Ed è attraverso quelle imperfezioni che rimandano riflessi cangianti che sto guardando l’oceano mentre la Wattaru passa l’equatore senza che nessuna traccia rossa disegnata sull’acqua lo indichi.
Niente è cambiato, intorno c’è sempre il blu dell’oceano, eppure tutto sembra diverso. Scendo in coperta e apro il rubinetto sperando che il vortice giri in senso orario ma non succede, forse siamo ancora troppo vicini al nostro emisfero.
Ci portiamo dietro la nostra casa come fosse una conchiglia che miglioriamo e abbelliamo man mano che diventiamo “grandi” attraverso il viaggio. La Wattaru ora è ben pulita e curata, ha sedie a sdraio in veranda e un bel tavolino dove prendere il tè, delle tovaglie colorate, tendine e lenzuola. Gli asciugamani lasciano ancora a desiderare ma qui troviamo solo la spugna peggiore. In compenso la nostra cucina, con un cuoco che si è integrato finalmente nella nostra filosofia e nel nostro gusto, farebbe invidia a un ristorante fusion, dove ricette italiane incrociano gusto e ingredienti maldiviani diventando particolari e innovative eppure la nostra cucina è un fazzoletto ripiegato stretto, cuciniamo con pochissimi utensili e poche pentole, non abbiamo il forno e gli ingredienti sono sempre gli stessi. Ma ci abbiamo messo tutta la fantasia, i ricordi d’infanzia, la nostra cultura per la quale l’amore passa attraverso il cibo e l’abbiamo mischiata a quello che c’è qui, ai sapori, alle tradizioni ed è venuto fuori un menù da leccarsi i baffi come fanno i gatti.
Ci addormentiamo ogni sera in un posto nuovo e nemmeno ne siamo consapevoli, il mare sembra sempre uguale ma non lo è. Lo si capisce imparando ad andare sott’acqua e abitando il mare da dentro.
Abitare poeticamente il mondo come dice Christian Bobin, questo desideravo sin da adolescente. Non pensavo che ciò avrebbe comportato abitare sul mare, ma così è andata. Molto nella vita è un accadimento non previsto da tarocchi o linee sulla mano.
Ma poi la parola abitare è complessa. Non basta un tetto e quattro mura, o due paratie nel mio caso. Ci vogliono spazi in cui sentirsi liberi, ci vuole silenzio, la possibilità di pensare. E non sempre qui è possibile. Le giornate scorrono con la densità di un fluido, senza vuoti. La Wattaru offre sempre nuovi spunti per riflettere sull’essere, sulle contraddizioni dell’avere e sulle molteplici forme del desiderio umano. Ma resta una casa anomala. Non la abito da sola: c’è Stefano, c’è l’equipaggio, ci sono i clienti. Non siamo una famiglia, ma dipendiamo gli uni dagli altri. Non è nemmeno una comune, perché i ruoli non sono paritari, anzi, completamente sbilanciati. Cerco di abitare poeticamente il microcosmo della Wattaru, che a sua volta abita il microcosmo delle Maldive, che a loro volta stanno nel grande mondo che è la Terra. Un mondo troppo vasto da abbracciare e capire in una sola vita. Eppure, tutto questo mondo esterno — la Wattaru, il mare, le Maldive, il suo equipaggio, gli ospiti, Stefano — abita anche il mio mondo interiore.
Anche la parola “poeticamente” è complessa, piena di fraintendimenti. Ho cominciato a viaggiare da giovanissima per allargare il mondo che vedevo dalla finestra di casa. Viaggiando sono entrata in altri mondi che che in qualche modo sono diventati anche miei. Le sensazioni diventano più intense, le emozioni travalicano il vissuto, sconfinano al di là di limiti e confini geografici. Sappiamo di avere una sola terra eppure ci sono molti mondi, e questi mondi possono essere così lontani tra loro da creare sgomento e paure. Il viaggio non è solo uno spostamento fisico, è una scuola che non finisce mai, che riporta la nostra piccola esistenza nella giusta dimensione, abbatte moralismi e pregiudizi, esalta e, insieme, esaspera la finitezza di ogni essere .
Superato l’Equatore, il paesaggio non è cambiato. Intorno c’è solo il blu, quello del mare e quello del cielo. Il canale è molto grande e da qui, per secoli, sono passate navi sulle rotte commerciali e di scoperta. Ben prima di noi ci sono passati gli egizi, gli arabi e i cinesi. Avranno avuto problemi a gestire le forti correnti e il vento e forse, si saranno meravigliati degli incredibili paesaggi che offre l’arcipelago.
Da sola, nel mezzo del canale dell’Oceano Indiano, poco sotto l’Equatore, c’è l’isola più isolata del mondo. Circondata da una spiaggia bianchissima ma senza una vera e propria laguna protettiva, è esposta ai movimenti del mare e per sostare bisogna ancorare da un lato o dall’altro dell’isola cercando di proteggersi dal monsone dominante. L’isola si chiama Fua Mulak, o atollo di Gnavyiani, ed è una montagna che si erge dall’oceano in mezzo al nulla ma è anche un luogo unico, diverso dalle altre isole, misterioso riguardo alla sua origine. Fua Mulak è lunga solo sei chilometri e larga tre. Ha terra fertile e crescono alberi di mango, papaya, lime, e betel oltre a melanzane, angurie e ananas. Sappiamo che è stata visitata da molti naviganti, Ibn Battuta è stato uno dei primi di cui ci sono tracce ma sicuramente anche i due fratelli Parmentier e Thor Heyerdahl. La leggenda vuole che le navi entrassero direttamente dentro la laguna, un giorno l’ingresso si chiuse e creò due bellissimi laghi di acqua dolce, buona da bere. I pesci intrappolati si trasformarono in pesci d’acqua dolce e continuarono a vivere felici e nutrire gli abitanti. Dubito fortemente che sia andata così, anzi il mistero dei laghi meriterebbe studi approfonditi e spero che un giorno un accademico trovi i fondi per iniziare una ricerca. L’acqua è dolce davvero: non si tratta di acqua salmastra.
La parte sommersa dell’isola cade bruscamente verso le acque profonde. Non c’è nient’altro intorno, solo oceano. I pescatori narrano di squali e grandi pesci, suggeriscono di immergersi a sud dell’isola dove un pianoro degrada in modo più dolce. C’è poca corrente e poca visibilità. Vediamo molte ombre di grandi squali, ma si distinguono a malapena, sono troppo profondi. Forse le condizioni sono sbagliate o forse gli animali hanno troppa paura di noi.
Siamo giunti al punto più a sud delle Maldive, siamo nell’atollo di Addu, un tempo base militare inglese. Gli inglesi hanno unito le isole con strade, su cui transitano macchine, pick up e biciclette. Gli inglesi, abituati a stare lontani da casa, hanno sempre cercato di ricreare villaggi accoglienti dove abitare, senza curarsi mai troppo degli effetti collaterali della cosa. C’è anche un aeroporto ed è proprio da qui che i nostri ospiti delle ultime due settimane prenderanno un aereo che li riporterà a Malè, ed è qui che arriveranno i prossimi ospiti con cui fare la rotta all’inverso, verso nord.
Questa è la nostra vita a bordo della Wattaru, una routine che si ripete giorno dopo giorno, eppure ogni giornata ha qualcosa di diverso, un piccolo imprevisto che la rende unica. È così che il nostro tempo si arricchisce, scandito da avventure e sorprese che ci fanno sentire sempre in viaggio in luoghi diversi, anche quando il mare sembra sempre lo stesso.
Leggi il CAPITOLO 12
Leggi il CAPITOLO 14
Non abbiamo mai parlato di come ci sentivamo lì perché era inebriante parlare del presente eppure un insofferenza nei mesi si accumulava senza capire perché quel paradiso non potesse bastare….. hai descritto benissimo quelle sensazioni in modo ineccepibile , grazie
Erano talmente tante le emozioni di quel viaggio! E le emozioni per essere comprese nella loro complessità e nelle loro sfaccettature devono avere una visione retrospettiva, quando si vivono, si possono solo vivere in tutta la loro intensità.
Grazie, Fulvia.
Un abbraccio forte
Non un commento, ma un complimento.
Brava!
Grazie di cuore, Mauro.
È come se parlassi la mia stessa lingua. Quando sono alle Maldive mi sento a casa, forse è così anche per te. Non so perché accade ma accade. Il mare il silenzio il blu, il celeste il bianco, il cielo, entrano nell’anima direttamente. Le tue parole mi hanno riportato lì! Grazie di cuore.
Caro Daniele, le Maldive sono state la mia “casa” per oltre quindici anni e ancora mi nutrono e mi affascinano. Sono tanti gli elementi che incatenano, proprio come hai detto tu: c’è il blu in tutte le sue sfumature, il silenzio sovrano, il cielo e il respiro del mare. Ogni elemento è sacro, quando ti ha toccato non ti lascia più.
Grazie di esserti imbarcato in questo viaggio.
Un abbraccio