Riflessi di Oceano – Capitolo 11
Capitolo 11
La barca è diventata casa. Come ogni casa, la conosci a fondo, con tutti i suoi difetti, e la vorresti diversa, migliore, più bella. Eppure, nel frattempo, accumuli oggetti e, soprattutto, ricordi che un giorno sarà difficile lasciar andare. Ogni settimana, un nuovo pezzo si aggiunge al monte della memoria, e a volte sembra che il peso di tutti loro diventi insostenibile, come se stessi trasportando il passato con te, come se fosse una conchiglia da cui non potersi più staccare, pur sapendo che, in fondo, vorresti solo andare lontana senza fardelli. Sembrerà strano a voi lettori, considerando che questa casa galleggia e si muove continuamente, sempre in viaggio, e il suo contenuto si rinnova costantemente, settimana dopo settimana, con persone ed esperienze nuove.
I marinai, invece, che il mare l’hanno scelto per necessità cercano ogni occasione per tornare a terra, a casa. Inventano le storie più incredibili pur di passare vicino alla loro isola e poter vedere la famiglia anche solo per una sera. Chi ha la fortuna di abitare lungo le nostre rotte si sente privilegiato perché può dormire a casa una notte su sette, avere gli abbracci della propria donna una notte su sette, giocare con i propri bambini una sera su sette… mentre chi non ce l’ha tenta di incantarci con racconti degni di Verne, sperando di attirarci verso quelle acque lontane. Avendo capito cosa ci spinge a continuare a navigare, raccontano di cernie giganti capaci di inghiottire un uomo intero, di squali mako e tigre e di altre straordinarie creature marine che popolano le loro storie. E così, diventa quasi una necessità proporre safari fino all’estremo sud o all’estremo nord dell’arcipelago, là dove le barche da safari non si avventurano regolarmente, dove non ci sono resort, e gli stranieri restano stranieri.
Le Maldive si estendono per circa ottocento chilometri da nord a sud, circa due terzi dell’Italia, e sono larghe centotrenta chilometri da est a ovest. Posizionate sotto l’India e lo Sri Lanka, tra i 7°6’30’’ di latitudine nord e 0°41’48’’ di latitudine sud, contano ventitré atolli geografici. Darwin, senza mai averle viste, fu il primo a spiegare la teoria della loro formazione. Oggi sappiamo che tutto è iniziato con la divisione della Pangea, quando la zolla Indiana, migrando verso l’Asia circa cinquantasette milioni di anni fa, passò sopra il punto caldo di La Reunion. Montagne vulcaniche emersero dal mare, divennero rigogliose di vegetazione e, quando la zolla si fermò nella sua posizione attuale, il corallo iniziò a crescere intorno a quei vulcani ormai inattivi, creando gli atolli che conosciamo oggi.
Abbiamo navigato per mesi negli atolli centrali, affinando le rotte, eliminando i punti più complicati e scegliendo con cura quelli migliori per ancorare e immergerci. Conosciamo le isole, con i loro jiinni, e il mare con le sue creature; anche se non si può mai dire di conoscere veramente il mare. Eppure, la sensazione è che la rotta perfetta, quella dove ogni elemento si incastra in armonia con se stessi e con il mondo esterno, sia ancora altrove. Dobbiamo continuare a cercarla.
Finalmente, abbiamo trovato i gruppi giusti per proporre un safari negli atolli del sud. Lo spirito d’avventura è palpabile, ma ci vorrà anche molto adattamento: non sappiamo cosa troveremo. Abbiamo caricato la barca al massimo: carburante, acqua, cibo. Per ciò che ci mancherà, contiamo sulla disponibilità dei pescatori locali. Sappiamo che potremo trovare gasolio e acqua nelle capitali d’atollo, dove speriamo di rifornirci anche di cibo fresco. Per il resto, inshallah.
Impiegheremo due settimane per raggiungere Addu, e da lì i nostri ospiti prenderanno un piccolo aereo per tornare indietro. Un nuovo gruppo ci raggiungerà per la risalita. Stefano e Shareef passano ore sulle carte nautiche, studiando rotte e ancoraggi. Stefano ne parla con suo padre alla radio; Leuro offre i suoi consigli, ma sa già che suo figlio non ne ascolterà nemmeno uno e farà di testa sua.
Per i primi giorni navighiamo in acque conosciute: l’atollo di Male sud con i suoi resort, Felidu con le sue lagune dalle gradazioni di blu incredibili, e Wattaru, piccolo, con la sua unica isola invasa dalle mangrovie dove si nascondono piccoli di squalo pinna nera. Lì incontreremo forse per l’ultima volta le mante alfredi, prima di addentrarci nei canali oceanici alla ricerca di nuove sorprese.
Quando entriamo nell’atollo di Mulak (o Meemu), il cambiamento si avverte subito, anche se è sottile. La prima immersione a Vah Huravalhu Kandu ci offre uno spettacolo unico: un doppio gradino con una lunga spaccatura piena di coralli molli dai colori vividi, e una quantità impressionante di pesce di tutte le dimensioni. Gli squali nuotano tra centinaia di carangidi e fucilieri, mentre grossi tonni sfrecciano veloci. È un carosello di vita marina che lascia senza fiato.
Nel pomeriggio ci immergiamo a Mulak Kandu. Qui, al centro della pass, un anfiteatro di sabbia bianca ci accoglie, con pesci che nuotano indisturbati nel blu cristallino. Mentre pinneggiamo verso il centro, un banco di barracuda di notevoli dimensioni si interpone tra noi e il nostro percorso, come una barriera. Il banco si divide a metà, permettendoci di passare, ma osservandoci attentamente. Il loro movimento è perfetto, quasi ipnotico. Si muovono all’unisono, come un’unica creatura.
Uno dei subacquei, sempre l’ultimo del gruppo nonostante le mie raccomandazioni di stare uniti, rimane indietro, rapito dalla vista dei pesci. È un attimo: i barracuda si chiudono su di lui, formando un cerchio stretto. Quando si accorge di essere rimasto solo in mezzo al banco, i suoi occhi, spalancati come frittelle, mostrano una preoccupazione crescente. Scatta in avanti come una torpedine, con le pinne che vorticano furiosamente per inseguirci come farebbe Willy il Coyote per acciuffare Beep Beep. I barracuda si aprono in sincronia perfetta, lasciandolo passare ma continuando ad osservarlo con i loro grandi occhi. Arrivato in mezzo al gruppo di subacquei ci si infila nel mezzo sentendosi ormai al sicuro mentre noi scoppiamo a ridere.
In superficie, la scena diventa ancora più comica. “Sembravi un razzo a pinne!” gli dice uno dei compagni, “Beep Beep”, aggiunge un’altro ridendo. Ride anche lui cercando di nascondere l’imbarazzo sotto un velo di ironia.
Io gli sorrido e non dico nulla, non serve.
Eccolo il mare, penso però. Sa sempre come insegnare, senza bisogno di parole o grandi discorsi. Qui si impara vivendo, con ogni respiro, ogni sguardo.
L’esperienza diretta ci porta una saggezza che non può essere insegnata con i libri. Il mare non ti dà grandi lezioni attraverso i momenti di gloria, ma nei piccoli imprevisti, quelli che ti spingono a confrontarti con te stesso e a capire davvero chi sei.
Stanotte dormiremo davanti a Diggaru. Il capitano sceglie il punto migliore dentro la laguna e ordina di calare l’ancora. A mano l’ancora scende e a mano salirà al momento di salpare. Sole, silenzio, spazio. Ci vuole un po’ per riuscire a osservare i dettagli: le alte palme, i bambini che giocano su pezzi di legno o piccoli barchini, le voci lontane, quasi impercettibili. Un pescatore in laguna tira su pesciolini con una rete. Le case costruite all’ombra della vegetazione, di corallo e sabbia, mostrano intersezioni riempite di conchiglie o frammenti di esse. I tetti sono fatti di foglie di palma intrecciate. Pace e tranquillità.
Per poter visitare l’isola serve il permesso dell’Island Council, l’equivalente del nostro sindaco. Il Governo cerca di tenere separato il turismo dalla popolazione locale e, se negli atolli centrali ormai sono abituati agli stranieri, ai quali si può vendere qualche conchiglia o pareo, quaggiù non è la stessa cosa. Ma noi abbiamo un asso da giocare: Ahmadu ha la sua famiglia sull’isola e intercederà per noi. Shareef tiene a portata di mano i nostri permessi di navigazione, nel caso il capo villaggio fosse più pignolo che curioso. Nel giro di poco, sentiamo gracidare la radio e Shareef ci comunica che possiamo scendere a terra, noi e i nostri ospiti. Le donne devono indossare abiti che coprano le spalle e le ginocchia, mentre per gli uomini vanno bene t-shirt e bermuda. Si va scalzi, c’è solo sabbia.
Shareef resta a bordo, un comandante non lascia mai la sua barca.
Siamo in undici e quindi saranno necessari due giri col nostro tender. Sul primo salgo io con una parte degli ospiti, sul secondo verrà Stefano con gli altri. Un piccolo nugolo di persone si è già assembrato sulla spiaggia e altre stanno arrivando.
“Kihineh vee?” Cosa succede, chiedo ai marinai.
“Balhan beynu.”
Ci vogliono guardare? Intendi che sono curiosi di noi?
Arriva Ahmadu seguito dalla sua famiglia, portando diverse noci di cocco immature in cui la polpa non si è ancora formata del tutto, lasciando solo un latte denso e ricco di vitamine.
“Kurumba beynu?”
Volete assaggiare il latte del kurumba? chiedo agli altri. “È un sapore particolare, meno dolce di quando il cocco è maturo e all’interno si è formata la polpa che conosciamo.”
Con un coltello grande e affilato Ahmadu taglia sicuro la noce e infila diverse cannucce, che ci passiamo a turno. Arriva anche il secondo gruppo e il rituale si ripete. Gli isolani ci osservano a distanza, curiosi ma riservati. Anche i bambini ci guardano, mantenendosi a una distanza maggiore.
Cominciamo la visita scortati da Ahmadu, che descrive la sua isola con fierezza.
“Qui abitano più di mille persone. Abbiamo i negozi, la moschea, e la scuola dove vanno tutti i bambini dai cinque anni in su.”
Camminiamo lungo la strada principale che taglia l’isola in due, con il nostro gruppo davanti e, a una distanza di una decina di metri, il gruppo dei bambini dietro di noi. Se ci giriamo e proviamo ad avvicinarci, scappano e si rifugiano nelle case. Ahmadu dice che non hanno mai visto i dhon mihaa, gente bianca, e sono incuriositi ma non confidenti. Le case di corallo costeggiano la strada. Quando passiamo, le persone ci sorridono dalle loro porte. Odore di cibo esce dalle case, dove le donne sono già alle prese con la preparazione della cena.
Dai giardinetti spuntano gallinelle con nastri colorati legati alle zampe. Chiedo ad Ahmadu il motivo, e mi spiega che i nastri indicano la proprietà delle galline, che vivono libere sull’isola e vengono usate principalmente per le uova, un alimento fondamentale. Anche le palme hanno scritte con vernici colorate. Stessa domanda, stessa risposta: i nomi delle coppie che hanno ricevuto queste palme dal Council al momento del matrimonio. Ogni famiglia ha un numero sufficiente di palme e di noci di cocco da sfruttare. È così anche per la terra: quando ci si sposa, ti assegnano un pezzo di terreno dove costruisci una stanza, e poi, quando arrivano i figli, un’altra stanza. C’è abbastanza per tutti.
Un gruppo di donne sta lavorando sotto un grande ficus. Una grattugia noci di cocco per ricavarne scaglie, mentre altre rollano foglie verdi, creando una poltiglia vegetale.
“Mi koaccheh?” Cos’è questo, chiedo.
“Curry leaves,” risponde Ahmadu. “Queste foglie fanno la base del curry, poi aggiungiamo le spezie e il latte di cocco. Ogni donna ha il suo modo di fare il curry.”
Più tardi, Ahmadu ci informa che quella sera cucineranno per noi e suoneranno i bodu beru. Guardo Stefano, che annuisce, ringraziando per l’ospitalità. Non se l’aspettava nemmeno lui.
Eight o’clock dinner!
“Ma alle otto è già notte, e noi non possiamo scendere a terra dopo il tramonto, giusto?”
“This time is different… “
Il capo villaggio ha dato il permesso, spiega Ahmadu. È tutta l’isola che ci invita.
La sera scende rapida. Tavoli e sedie compaiono come per magia al centro della strada. Mangiamo lì, sotto le stelle, mentre le donne portano piatti di curry piccante, polpette di pesce, insalate di cocco e verdure. La luce elettrica è debole, abbastanza per illuminare il cibo, ma non abbastanza per disturbare la quiete della notte. Beviamo latte di cocco e tè dolce.
Poi arrivano i tamburi. Le mani battono lentamente sulla pelle di razza, il ritmo si intensifica, e la melodia prende vita. I danzatori seguono il ritmo, i loro corpi si muovono con fluidità, roteando e avanzando. Alcuni di loro invitano le ragazze straniere a unirsi al ballo. Le loro donne ridono, i volti nascosti tra le ombre dei giardini, mentre osservano il nostro gruppo.
I ragazzini, che all’inizio erano timidi, ora ci girano intorno, ripetendo sempre la stessa domanda: “What’s your name?”
Quella notte, eravamo tutti amici, uniti nonostante le differenze. Eravamo legati dal mare, dalla sua magia, e da un tempo che qui scorre diversamente, un tempo che sembra dilatarsi e accorciarsi a suo piacimento. Le isole, come già Ulisse sapeva, hanno ciascuna una propria identità e un proprio tempo.
Quando la festa finisce, ci accompagnano in processione fino alla spiaggia, dove il tender ci aspetta.
“Vara bodu shukkuriyaa,” ringraziamo nella loro lingua per quella ospitalità genuina e sincera, mentre ci allontaniamo nella notte a bordo del nostro dhinghy.
Il mare è immobile, regale.
Solo il mormorio del motore rompe il silenzio. Ognuno di noi è perso nei propri pensieri.
Dove saremo domani?
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Prosegue il viaggio con grande empatia ed emozione.
Un viaggio è qualcosa che ti trasforma e al ritorno ti offre visioni nuove del quotidiano.
Grazie di esserci.
Un abbraccio
Super!
Non sarà stato il primo vostro safari ma anche io la prima volta che scesi “al sud” era con Macanà (in barca te e Stefano)
Esperienza unica, simile a quella che descrivi.
Questo tuo lavoro x me è miele!
Ancora grazie Donatella.
Caro Mauro, miele è ricevere i tuoi commenti e leggere i tuoi ricordi…
Un abbraccio forte
Bello anche questo capitolo sembra proprio di essere lì … e vedere i ragazzini che fanno i tuffi per attirare l’attenzione… la vita delle loro isole così tranquilla.
Forse perché il ricordo è rimasto così forte che è come se li vedessi ancora ora…
Un forte abbraccio
Ahhh che ricordi che mi attivi Donatella.
Mi ricordo che una volta con Leuro nel 96 siamo arrivati fino all’atollo di Lamu dopo gli obbligatori permessi e quella crociera mi ha dato il vero senso dell’esplorazione con immersioni fatte in pass che avevano visto sicuramente rarissimi sub.
Caro Bruno, mi fa piacere che i miei ricordi ne attivino altri come un moto ondoso che si propaga sulla superficie del mare.
Grazie per aver condiviso.
Un abbraccio
Ogni capitolo è un fantastico viaggio!!!!!
Esiste un modo di viaggiare che trasforma il viaggiatore e i luoghi visitati; esiste un modo di viaggiare che si manifesta anche quando non è ancora iniziato e continua dopo che è finito, per sempre.
Grazie di navigare insieme a me.
Un abbraccio forte.