Le mie Maldive

Riflessi di Oceano – Capitolo 10

Capitolo 10

La domenica mattina, arriva il cuoco numero 2. Un maldiviano che si presenta con un sorriso sicuro e un inglese che, se non perfetto, è certamente meglio di quello del suo predecessore. Ci vuole poco in effetti!
Mi racconta, con orgoglio, di aver già lavorato su una barca da safari e di conoscere i gusti degli italiani. C’è una fierezza nei suoi occhi che mi fa sperare. Forse, questa volta, le cose andranno meglio.
“Okay, let’s taste what you can do tonight!” gli dico, con un misto di curiosità e cautela.
Mi risponde con uno sguardo sicuro, come se accettasse una sfida e fosse in grado di vincere. Quel piccolo guizzo di competizione mi fa sorridere. 

Leuro, che è venuto a salutarci prima di partire con la Moonimaa, mi abbraccia con affetto, con il solito calore che gli appartiene. “Cosa ne pensi del nuovo cuoco, ragazzina?” mi chiede, con la sua voce grave e l’accento toscano.
“Speriamo bene,” rispondo. “Non voglio gioire prima di aver visto cosa sa fare.”
Leuro ride, con la sua consueta leggerezza che rende tutto più sopportabile. 
“Non essere pessimista, vedrai che qualcuno in gamba c’è. Bisogna solo trovarlo!”
“E come si fa?”
“Ah, non lo so,” continua, scrollando le spalle. “Anche io devo andare spesso in cucina…”
“Vieni pure qui, allora!” dico, ridendo.
“Non è così semplice,” ribatte, strizzandomi l’occhio. “Io sono uno chef costoso. Lascio a te il piacere di imparare, così quando mi ritirerò ti occuperai anche della Moonimaa.”
Scuoto la testa, ridendo. “Te lo puoi scordare. Io a settembre torno all’università.”
“Oh, immagino si faccia meno fatica lì, eh?”
“Assolutamente sì!”
Leuro ride di nuovo, un riso profondo e contagioso, e in quell’istante mi rendo conto di quanto la sua capacità di affrontare la vita con entusiasmo e umorismo sia qualcosa da imparare, anche se per niente facile.

La prima immersione della settimana è sempre un test, una scoperta reciproca. Ci aiuta a comprendere chi abbiamo di fronte: il livello di esperienza, le aspettative, le piccole paure che ognuno porta con sé nel blu profondo dell’oceano. Il mio gruppo, come spesso accade, è un mix affascinante. Ci sono naturalisti appassionati, subacquei esperti che hanno solcato mari e oceani, e poi c’è sempre qualcuno che, con occhi brillanti, ti racconta di come questo sia il viaggio che sognava da una vita.
Dopo la prima immersione, insieme a Stefano, dividiamo i partecipanti in due gruppi. I più esperti vanno con lui, i meno esperti vengono con me. Durante la settimana, però, capita anche che, i gruppi si rimescolino in base a ciò che vogliono vedere. Gli amanti degli squali e delle grandi creature si muovono verso Stefano, mentre chi, come me, ama la magia della microfauna si avvicina al mio gruppo. 
“A me il gruppo degli squalisti, a te quello dei sottaceti!” Scherza Stefano. 
“A me va bene così, adoro scoprire piccole affascinanti creature…”

Nell’acqua dell’Oceano Indiano, a ventotto gradi, mi sento avvolta come in un grembo materno. È una temperatura perfetta, che culla il corpo e la mente, tanto che non vorresti mai risalire. Eppure, arriva sempre il momento in cui devi tornare in superficie. Sto indicando al gruppo che è venuto il momento di ritornare a -5 metri per la nostra sosta quando Franca mi fa segno di raggiungerla. Con occhi eccitati, mi indica una minuscola ciprea rosa che si muove lenta sopra un’alcionaria lilla. Il mantello espanso sopra la conchiglia che imita i colori e i polipi corallini, la lentezza nei movimenti, la delicata perfezione: tutto sembra racchiuso in quel minuscolo miracolo di vita che c’è sotto i nostri occhi. Restiamo lì, immobili, a osservare quella meraviglia. Solo il rumore del nostro respiro attraverso gli erogatori. È come se, per un attimo, tutto il resto sparisse. I bip dei nostri computer, però, ci richiamano alla realtà, e a malincuore indico la risalita con il pollice verso l’alto.
Appena siamo fuori dall’acqua, Franca esclama con entusiasmo: “Credo sia una Primovula roseomaculata! Vive proprio su questi alcionari del genere Dendronephthya. Che meraviglia!”
Annuisco. “Era bellissima. Davvero bellissima. Belli i pesci grossi, certo, ma quella piccola creatura… Che perfezione!”
Franca sorride e mi racconta di essere una malacologa, una specialista di molluschi. Insegna all’università e ha dedicato tutta la vita allo studio di quelle creature. Mi confessa che ogni immersione per lei è una caccia al tesoro, alla scoperta di conchiglie mai viste prima.
“Che cosa interessante!” dico. “Vorrei farti mille domande. Devo segnarmi il nome scientifico della ciprea sul mio quaderno.”
“Ah, nessun problema! Il mio lavoro è raccontare e condividere ciò che so.”

A bordo, l’atmosfera è rilassata. Ci aspetta un tè caldo, servito con i biscotti, prima di una doccia “fredda”, poiché in quei primi anni le barche non avevano l’acqua calda. La doccia è comunque un lusso che ci concediamo con parsimonia, visto che l’acqua è una risorsa limitata. Qui, nulla va sprecato. Ogni goccia è preziosa.

Solo Malé e pochi resort dispongono di un dissalatore, quindi riempiamo il serbatoio della Wattaru all’inizio della settimana, sperando che l’acqua sia sufficiente fino alla fine del safari. Ma non sempre va così. A volte gli ospiti si trattengono troppo a lungo sotto la doccia, e finiamo per restare senza acqua. In questi casi, dobbiamo affidarci alla preziosa amicizia del capitano o di un membro dell’equipaggio con un capo villaggio di un’isola di pescatori, dove si può attingere acqua da un pozzo. Non si tratta di un vero e proprio pozzo, ma di una buca scavata al centro dell’isola, in cui si accumula sia l’acqua piovana che quella marina, filtrata naturalmente dal carbonato di calcio, la molecola principale che compone lo scheletro del corallo. Tuttavia, se non piove da settimane – cosa che accade più spesso di quanto si pensi – il capo villaggio scuote la testa tristemente e ci rifiuta l’acqua, dicendo che nemmeno loro ne hanno abbastanza.

I giorni di pioggia, quindi, sono sacri. In un Paese circondato da acqua salata, avere a disposizione una quantità abbondante di acqua dolce che cade dal cielo è un’occasione da sfruttare al massimo. Appena comincia a piovere, in pochi minuti spuntano lunghi tubi di plastica dal sundeck, che raccolgono la pioggia e la convogliano direttamente nelle cisterne della barca. I marinai tirano fuori tutto il loro guardaroba – due magliette e due pantaloncini, qualcuno anche una camicia e un paio di jeans – e cominciano a insaponarli nel pozzetto della barca, sfregando energicamente. Nel frattempo si insaponano anche i capelli e il corpo, e qualcuno ne approfitta per farsi la barba. Quando la pioggia smette, la Wattaru assomiglia a una strada di Napoli, con la biancheria stesa ovunque ad asciugare al sole.

Sono le sei del pomeriggio, la prima immersione è andata bene. Gli ospiti sono simpatici e hanno storie interessanti da raccontare. In cucina, il nuovo cuoco è all’opera. Il mare è calmo, e le condizioni del vento sembrano stabili. Tra poco il cielo ci regalerà sfumature rosso dorate che daranno vita a uno dei tanti tramonti spettacolari che caratterizzano queste isole.  
Le premesse per godersi la settimana e rilassarsi ci sono tutte.
Entro per dare un’occhiata alla cena, e il cuoco mi fa cenno di avvicinarmi alla pentola. Apro il coperchio e vedo gli spaghetti galleggiare in un mare di salsa rossa…  
Manca poco che svengo!  
Chiamo Stefano, che arriva e dà un’occhiata. La sua faccia è impagabile.  
Senza dire una parola, prende la pentola per i manici, si precipita fuori dalla cucina e lancia tutto in mare.  
Il cuoco ammutolisce.  
L’equipaggio ammutolisce.  
Nessuno osa dire niente.  

“Aveva detto che sapeva farlo… Ma cos’è questa roba?”  
“Sì, hai ragione, però… la pentola ci serviva ancora!”  

Il momento è tanto drammatico quanto comico.

Alla fine, la pentola l’abbiamo recuperata, ma io e Abdullah ci siamo aggiudicati un’altra settimana di turni in cucina. Ogni giorno, finita l’immersione, entro in cucina e lui mi porge il grembiule, mostrandomi a che punto è arrivato con le preparazioni. Ormai siamo una squadra: lui prepara tutti gli ingredienti, sfiletta il pesce, ottiene una pastella perfetta per friggere e impasta la farina per i rothi. Io mi occupo dei primi e supervisiono i secondi e le verdure.  
Ci muoviamo con naturalezza nella piccola cucina, senza intralciarci, anzi, esplorando nuovi sapori tra ciò che appartiene alla sua cultura e ciò che porto dalla mia.
Quando il travaso culturale avviene attraverso il cibo, si espande toccando corde profonde e personali. Dentro ogni piatto ci sono le madri e i padri, i visi rugosi delle nonne che impastano e dei nonni che proteggono, i segreti tramandati di generazione in generazione.  
La cucina è diventata il luogo dove ci scambiamo ricordi, sogni e ambizioni. Gli altri marinai vengono a chiedere di assaggiare la pasta o il risotto e si interrogano sul perché abbiano quel sapore. Poi mi suggeriscono un ingrediente, quello della loro mamma o della giovane moglie lontana, che fa venire nostalgia.  
Attraverso il cibo passano anche le parole, e come il cibo, le parole nutrono. Non importa se non le pronunci bene, ciò che conta è che iniziamo a conoscerci, e con la conoscenza nasce il rispetto, e poi l’affetto.
Io assaggio i loro curry, salse a base di spezie come curcuma, latte di cocco, e peperoncino, ognuno con la sua ricetta segreta, proprio come in Italia ognuno sostiene di avere la formula perfetta per il ragù. Mia nonna, per esempio, preparava il ragù più buono, aggiungendo una goccia d’oro nella pentola: il prezioso zafferano sardo.  
Lo racconto ai ragazzi mentre assaggio la loro salsa al curry e tossisco per via delle spezie.  
“È il peperoncino che graffia la gola,” mi spiegano. “Serve per disinfettare il cibo e lo stomaco. Senza frigorifero non è facile conservare gli alimenti.”
“Sure!”  
“All Italy houses have fridge?”
“Sì, credo di sì!”
“In Maldives only rich people have fridge!”  

Dopo cena, quando ormai la giornata è finita, non ho più energie nemmeno per pensare. Dopo che gli ospiti vanno a letto, mi metto a prua sdraiata su un materassino a guardare un cielo infinitamente grande e pieno di stelle. Stefano mi si sdraia accanto e mi abbraccia, spesso si addormenta subito, molto stanco anche lui. Io resto sveglia, incapace di dormire. Il silenzio del mare mi avvolge, l’unico suono è lo sciabordio delle onde che lambiscono lo scafo della barca. La stanchezza fisica lascia spazio a una calma profonda.
Si riesce a vedere il carro maggiore sull’orizzonte a nord e la stella polare a sud. Nel mezzo, il braccio della Via Lattea, luminoso, si estende sopra di me come una fascia di polvere di stelle. È uno spettacolo che lascia senza fiato, un promemoria costante di quanto siamo piccoli in questo universo così vasto, e di quanto sia prezioso ogni singolo istante che passiamo immersi nella natura.
Qui, non ci sono luci artificiali che disturbano la vista. Non ci sono i rumori delle città che riempiono la notte di suoni frenetici. Solo il respiro del mare e quello delle stelle. La volta celeste, che si espande sopra di me, è così vasta e così densa che commuove fino alle lacrime. È impossibile estraniarsi dal mondo in un luogo come questo, anche se, a volte, se ne ha davvero voglia. Qui, il mare vibra in ogni cosa. Non c’è distinzione tra te e l’ambiente che ti circonda. È come se il mare e il cielo diventassero parte di te, e tu di loro. È una comunione silenziosa, costante, e piano piano se ne diventa dipendenti. Il cuore si apre alla vastità e, senza nemmeno accorgersene, si diventa parte di questo tutto.
A volte mi domando quanto tempo si può vivere così, in questo stato di meraviglia continua, prima che la realtà ti reclami indietro.

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8 pensieri riguardo “Riflessi di Oceano – Capitolo 10

  • Stupendo capitolo…. aspettare un altra settimana per leggerne un altro diventa difficile. Al prossimo capitolo.

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    • Donatella Moica

      Carissima, hai ragione e lo capisco… temevo che una frequenza maggiore potesse annoiare, bisognerebbe fare un sondaggio sui desideri delle persone.
      Intanto grazie di essere ancora qui, in questo incredibile viaggio nel mare della memoria.
      Un abbraccio

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  • Penso che rimanga una lettura molto interessante e spero che tu continui a scriverla…. grazie

    Rispondi
    • Donatella Moica

      Hai viaggiato fisicamente con me in varie parti del mondo e ti sono grata che tu voglia viaggiare anche tra le pagine che scrivo.
      Grazie di cuore.
      Un abbraccio

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  • Mauro Masciarelli

    Grazie Donatella
    5 minuti di lettura piacevole, ricca di emozioni e ricordi.

    Rispondi
    • Donatella Moica

      Grazie di cuore, Mauro!
      Mi fa un immenso piacere che tu sia ancora qui, dentro questa storia che sa di mare e di sale. Le Maldive devono tantissimo al turismo, a quei primi viaggiatori che seppero vedere la bellezza e la potenza di quella natura e di quel mare strabordante.
      Un abbraccio

      Rispondi
  • Bruno Perdona

    Bene Donatella..aspetto con ansia il tuo prossimo racconto di quegli eroici ed orma lontani anni 90 alle Maldive in barca.

    Rispondi
    • Donatella Moica

      Caro Bruno, mi hai fatto riflettere con il tuo commento: forse non erano anni eroici, però certamente erano viaggi fatti da viaggiatori disposti anche a qualche piccolo sacrificio per scoprire la bellezza di un luogo e lasciarsi trasformare dallo stesso. Oggi, credo, sia cambiato lo scopo del viaggio: si cerca più il riposo e il rilassamento che la trasformazione, quell’elemento indispensabile per riuscire ad accogliere e imparare dalla diversità (rispetto a noi, rispetto a ciò che abbiamo a casa) diventando persone più ricche dentro.
      Forse, dovremmo ritornare a quel modo di viaggiare.
      Ti ringrazio per avermi fatto pensare.
      Un abbraccio

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