Lo tsunami: quando la natura ci mostrò la nostra vulnerabilità.
Il 26 dicembre di vent’anni fa, al largo di Sumatra, un terremoto sottomarino generò un’onda di enormi proporzioni che colpì molti Paesi, seminando distruzione e morte. Da quel giorno abbiamo imparato una parola che in pochi conoscevano: tsunami. Io mi trovavo alle Maldive e…
Il primo impatto
L’isola dell’aeroporto sembrava sprofondare nell’abisso marino. Il mio primo pensiero fu che si trattasse di un errore ingegneristico: l’isola è artificiale, forse qualcosa non aveva retto. Ma il capitano gridò di levare l’ancora: la laguna si stava svuotando davanti ai nostri occhi.
Riuscimmo a uscire in mare aperto appena in tempo, mentre l’acqua ricopriva l’isola come un’onda inarrestabile. Era come assistere a una scena irreale: gli ancoraggi degli idrovolanti venivano strappati, le porte degli edifici cedevano, e l’acqua invadeva tutto. Materassi inzuppati come biscotti nel tè, circuiti elettrici fusi, mobili trascinati via. La natura stava mostrando la sua potenza.
Le barche oscillavano di un metro, su e giù – l’ampiezza dell’onda-, mentre lo tsunami attraversava le Maldive. Per fortuna, il profilo marino delle isole, fatto di montagne sommerse, evitò che l’onda si infrangesse come altrove. Qui l’onda passò sopra senza sollevarsi come un mostro. Solo più tardi, grazie alle notizie e alle telefonate dei nostri familiari, comprendemmo la portata del disastro.
Sott’acqua e sulla terra
Sott’acqua, l’impatto fu diverso ma ugualmente sconvolgente. Correnti fortissime improvvise, acqua torbida carica di sabbia e detriti, e subacquei trascinati via. Tornarono in superficie sparsi, confusi, senza rendersi conto di cosa fosse successo. La barca diving, in attesa sulla superficie, non aveva notato nulla di strano.
Il giorno dopo, un nuovo allarme: si aspettava una seconda onda. La gente si radunò al centro dell’isola, come se un’isola piatta potesse offrire rifugio. La seconda onda non arrivò mai. Solo nei giorni seguenti fu possibile osservare i segni dello tsunami: formazioni coralline spazzate via, fondali lisci come se qualcuno li avesse ripuliti. Per fortuna, i danni furono meccanici e non biologici. In pochi anni, i polipi corallini avrebbero costruito nuove e incredibili strutture che vediamo ancora oggi.
La tragedia umana
Nonostante i danni materiali, fu la tragedia umana a colpirci di più. Ottantadue persone morirono alle Maldive, la maggior parte bambini trascinati via dalle spiagge. Ventisei persone scomparvero, mai più ritrovate. Nei giorni successivi arrivarono i corpi, viaggiavano col mare da chissà dove. Si spiaggiavano creando effetti traumatici indimenticabili. Gli idrovolanti non danneggiati si alzavano in volo per avvistare i corpi gonfi che galleggiavano sull’acqua. Per evitare che “incontrassero” i vivi, barche di volontari li recuperavano. Forse qualcuno li avrebbe riconosciuti, forse sarebbero rimasti senza un nome.
Ogni corpo raccontava una storia interrotta. Chissà chi li aspettava, chi li cercava, chi li piangeva. Forse qualcuno li sta cercando ancora oggi, mentre scrivo queste righe.
La lezione del mare
Alle Maldive, il turismo è il cuore dell’economia. Anche se pochi persero la casa, molte persone persero il lavoro. La chiusura degli alberghi rallentò la ripresa e ricordò a tutti quanto ogni disastro, naturale o umano, colpisca le vite delle persone più vulnerabili. Lo tsunami, come hanno fatto la caduta delle Torri Gemelle, il Covid e ogni guerra, mostrò la fragilità di un sistema globale interconnesso.
Ma c’è qualcosa di più profondo: ogni catastrofe ci ricorda la nostra finitudine. La nostra specie non è eterna, non è suprema, nonostante la presunzione di controllare tutto. Dimentichiamo troppo in fretta, impariamo troppo poco dalla voce della natura.
Lo tsunami ci attraversò. Sopravvivemmo, ma non restammo gli stessi. Nessuno tsunami lascia uguali. La forza dell’acqua, il suo potere distruttivo, ci costrinse a riflettere sul senso della nostra esistenza, sulla nostra vulnerabilità, sull’arroganza di pensare di essere invincibili.
Forse, però, c’è consolazione in un’idea: la vita che si rigenera. Siamo parte di un ciclo più grande, di un progetto che ci sovrasta. Forse morire per l’onda non fu vano, se ci ricorda chi siamo davvero: esseri fragili, infinitesime parti di un pianeta regolato da leggi fisiche che non possiamo cambiare, ma che possiamo imparare e rispettare. Solo così possiamo sperare di vivere in equilibrio con la natura, invece di scontrarci con la sua forza e lasciare un pianeta-casa a chi verrà dopo di noi.
Ricordo benissimo quanto descrivi! Che enorme tragedia… che ogni volta ci rimanda alla importante definizione che “ non siamo che strumenti di Dio” e che nulla possiamo contro la natura…
Siamo piccoli, infinitesimi nelle grandi regole della natura, ma crediamo di essere sopra le ragioni del mondo.
Esattamente….