La mia piccola
Ogni giorno prendiamo decisioni, ogni giorno facciamo delle scelte, ogni giorno ci lasciamo indietro qualcosa a favore di qualcos’altro. Alcuni prima di decidere ci pensano per giorni, mesi, anni altri, invece, hanno bisogno di un solo minuto.
A volte, però, anche quando siamo convintissimi che la decisione che abbiamo preso sia la migliore possibile in quel momento della nostra vita, qualcosa rimane lì e non vuole proprio andarsene…
Vi propongo nuovamente un racconto di Pasquale Cavalera contenuto nel suo libro “Sulla pelle la speranza”
La mia piccola
«Mamma!».
«Figlia mia».
«Abbracciami mamma, vieni da me».
«Per quale motivo sento ancora la tua vocina piccola mia? Perché non sono in grado di trovarti? Dove sei amore mio, manifestati alla tua mamma, non avere paura».
«Mamma, vieni a prendermi, sono qui».
Cominciò a cercare convulsamente tra le coperte, nell’armadio, dietro, ma nulla. Rovistò in camera degli ospiti, corse in bagno, fino ad arrivare in cucina. Sentiva il cuore pulsare vertiginosamente in gola, quasi fino a soffocare. Della bambina nessuna traccia.
La confusione aumentava.
«Dove sei amore della mamma?».
Udì delle grida provenire dal soggiorno, si voltò, vide una bambola vestita d’arancione rotolare giù dalle scale. Con le ultime forze rimaste, si precipitò in direzione del vecchio stanzone, accese l’intero lampadario illuminando
a giorno ogni oggetto circostante. Le apparve tutto così come ricordava, intatto da più di vent’anni. Ritrovò il vecchio tavolo rotondo di legno massiccio, una credenza ottocentesca a fare da sfondo. Alla sua destra vi era ancora l’antico divano a tre posti, impolverato, rivestito in similpelle, poco più in alto si ergeva uno specchio a copertura dell’intera parete.
«Mamma voltati, sono qui».
Si girò di scatto. Impallidì nello scorgere dinanzi a se i contorni sfumati di una creatura teneramente piccina, denutrita, alta non più di sessanta centimetri e che a stento riusciva a rimanere in piedi sulle sue fragili gambe. Aveva il viso violaceo, labbra non ancora ben definite, ciocche di capelli impregnate di liquido amniotico.
La donna si inginocchiò lentamente, incredula la fissò dritta negli occhi e a mani giunte implorò pietà. Dal cordone ombelicale gocciolava ancora del sangue arterioso, sembrava come se qualcuno lo avesse prematuramente strappato con inaudita violenza. La piccola accennò un sorriso, poi chinò il capo sillabando incomprensibili parole, strinse forte i dentini bianchi fino a farli vibrare. Stremata, collassò senza più respiro tra le sue braccia.
Per la prima volta dopo tanti, troppi lunghi anni, la bambina decise di mostrarsi a sua madre. Dopo quella notte il sogno ricorrente svanì per sempre. Quello che invece rimase impresso nella mente della donna, tangibile, vivo, come un segno indelebile nella memoria, fu il ricordo del suo aborto, volontario, al terzo mese, per una gravidanza non desiderata.