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La conciliazione delle narrazioni

Qualche giorno fa ho sentito una collega imprenditrice fare questa affermazione:
”posso accettare l’incarico perchè ora ho i bambini grandi.”
Mi sono chiesta se un uomo avrebbe mai usato una frase simile. Credo che non lo avrebbe fatto.

Non è un caso. Quella narrazione ha radici profonde nella nostra cultura.

Le narrazioni contano. E creano distorsioni
Ogni società vive immersa in narrazioni. Alcune sono racconti espliciti, altre agiscono sotto traccia, modellando comportamenti e convinzioni.
Tra le più resistenti c’è quella secondo cui la “conciliazione vita-lavoro” sia un tema femminile.
Non è solo un’abitudine linguistica. È l’effetto di un bias cognitivo.

Cos’è un bias cognitivo?
I bias cognitivi sono scorciatoie del pensiero. Schemi mentali che semplificano la realtà per permetterci di reagire rapidamente.
Funzionano come automatismi, ma non sono neutri: distorcono i giudizi, rinforzano stereotipi, ostacolano il cambiamento.
Nel nostro caso: se associamo la cura sempre e solo alla donna, finiamo per pensare che il problema della conciliazione riguardi solo lei.
Da molto tempo, il racconto dominante assegna alle donne la responsabilità del lavoro di cura.
Lo fa nella pubblicità, nel linguaggio comune, nelle policy aziendali. Ma anche all’interno delle famiglie.
E anche quando vogliamo sostenere le donne, rischiamo di farlo rafforzando il bias: “conciliazione per lei”, “permesso per la mamma”, “flessibilità pensata al femminile”.

Le conseguenze sono reali: nella testa, nel corpo, nelle scelte
Queste narrazioni distorte generano senso di colpa, ansia da prestazione, sindrome dell’impostore.
E creano un altro bias: se un uomo sceglie di occuparsi della casa o dei figli, è “un mammo”, non un padre. Come se stesse facendo qualcosa di eccezionale, fuori ruolo.

Abbiamo bisogno di una nuova narrazione per tutti, non solo per le donne
La conciliazione non è un bisogno femminile, ma una condizione umana.
Non riguarda solo le madri, ma ogni persona che cerca senso, tempo, pienezza tra vita e lavoro.
Serve una narrazione nuova, che riconosca la corresponsabilità e valorizzi la cura come competenza trasversale.

E le imprese? Devono cambiare copione.
Le imprese non possono limitarsi al welfare tattico. Devono riscrivere il proprio storytelling interno.
Formazione, linguaggio, policy: tutto concorre a costruire una cultura aziendale che non rafforzi bias ma li superi.
Il lavoro è anche identità. E identità distorte generano stress, fuga di talenti e disuguaglianza. Anche questo significa essere Impresa generativa.

Cambiare il racconto è il primo passo per cambiare la realtà
Possiamo cominciare da qui: riconoscere i bias. Nominare le narrazioni che li alimentano.
E costruire, insieme, nuove storie in cui conciliare non significhi adattarsi a un modello sbagliato, ma riscriverlo.

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