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In tempo di coronavirus

Viviamo una situazione di estrema incertezza, di atmosfera kafkiana, inquieta e incomprensibile. Cerchiamo di tenerci occupati per non perdere la lucidità ma non è facile. Io mi rifugio in giardino, nei libri e nella scrittura. Ho la fortuna di poter infilare le mani nella terra scura, friabile, a tratti argillosa e collosa. Spero, forse, che conserverà le impronte delle mie mani anche quando io non ci sarò più. So di essere fortunata. So che questo tempo sospeso è tempo di semina, tempo di progettazione. Il giardino è maestro in questo: ciò che pianti oggi darà il meglio solo in futuro, spesso dopo anni. Ma è necessario avere a disposizione quegli anni e molti non li hanno. Non li hanno gli anziani, non li hanno le imprese, non li ha chi non riesce a pagare le bollette a fine mese, chi non ha un lavoro o chi quel posto di lavoro teme di perderlo. La bellezza, la poesia e la filosofia aiutano ma è difficile concentrarsi su una bella poesia quando la rata è in scadenza e non sai come pagarla.

Viviamo un tempo di “sospensione” ma proprio la parola vivere ci ricorda che l’orologio continua a scorrere lento e inesorabile. Ci ricorda che questi giorni “sospesi” non saranno restituiti e che verrà il momento in cui sarà necessario fare i conti. Echeggiano ovunque grida disperate che chiedono ripensamenti alle scelte del governo comunicate la scorsa domenica, il giorno successivo alla festa della liberazione. Voci che chiedono il perché ad alcuni è dato di tornare al lavoro e ad altri no. Cosa rende un settore più importante di un altro? cosa rende certe persone più capaci di altre di applicare le norme anti-contagio? Le donne in queste situazioni piangono, si arrabbiano, danno sfogo alle emozioni perché di questo sono fatte; poche parole e risposte concrete quando si tratta di tirare su i figli, decidere cosa mettere in tavola o come amministrare l’economia famigliare. Molte di queste donne sono titolari di imprese piccole, micro per lo più, imprese dei servizi, del commercio, della cura alla persona… imprese con cui mantengono i propri figli e con cui si mantengono quelli dei dipendenti, quando ci sono. E spesso quelle famiglie sono mono-genitoriali perché è inutile nasconderselo, è inutile dire che questo virus ha riavvicinato le famiglie laddove le famiglie non ci sono più da tempo o meglio sono costituite di una singola persona o di un singolo genitore con uno o due figli nella migliore delle ipotesi. E la scuola? Viene spontaneo chiedersi come mai una baby-sitter che non appartiene al nucleo famigliare possa entrare in casa e stare con i bambini mentre la scuola sembra l’ultimo dei problemi dei politici. I nonni non si possono più occupare dei nipoti, certo è vero sono una categoria a rischio e spesso vivono in RSA, quelle che hanno avuto le maggiori perdite e forse anche una certa responsabilità nei contagi. Ma non è responsabilità che andiamo cercando, l’imponderabile è sempre in agguato e questa pandemia avrebbero potuto prevederla solo scrittori e narratori di fantascienza.

Il dilagare del virus ci ha fatto porre domande storiche, oltre che prettamente connesse all’attualità, proprio per il bisogno di sapere se l’umanità avesse già affrontato prove di uguale portata e capire come ne è uscita. I paradossi generati da taluni aspetti di questa crisi sono sotto gli occhi di tutti anche se preferiamo non guardarli o non vederli, così per esempio l’appello a lavarsi le mani continuamente dimentica che in alcuni paesi l’acqua è più preziosa del petrolio ed è proprio con l’acqua, e con tutti i beni di prima necessità, che si controllano l’economia e i voti;  il distanziamento sociale, così ribattezzato, non è possibile in quegli ambienti in cui povertà e mancanza di mezzi obbligano a condividere in molte persone abitazioni piccolissime e malsane, e non c’è bisogno di andare in India per trovarle; non esiste solo l’emergenza di produrre i dispositivi di sicurezza individuale ma anche quella di smaltirli dopo l’uso. La guerra che ha dovuto affrontare l’esercito di prima linea dei sanitari per salvare vite umane contro il virus si è ora trasformata in nuova guerra che chiede sempre di salvare vite umane ma contro la miseria e a cui deve far fronte un altro esercito che invece sembra, a differenza del primo, latitante e incompetente.

Il virus, quell’essere piccolo piccolo, ci ha lasciati attoniti, impauriti e ansiogeni ma ora è il momento di soffocare quei sentimenti e avere il coraggio di uscire allo scoperto. Abbiamo già testato che è possibile lavorare in sicurezza nei supermercati e in quelle attività considerate di prima necessità e dobbiamo mettere in pratica quanto imparato anche in tutte le altre attività. Non è più tempo né di canzoni dal balcone né di spot televisivi che ci ricordino di essere italiani. Sappiamo di essere italiani e ne siamo fieri. Ma è venuto il momento si smetterla di pensare solo al proprio “orticello”, di smetterla di continuare a costruire muri mentali, economici e sociali. Il virus ci ha insegnato che, indipendentemente dalle differenze, gli uomini hanno molte più cose in comune di quello che pensano, a partire dalla biologia. Non esisterà una ripartenza che non sia di tutte le categorie e di tutti i Paesi.

Dobbiamo proteggere le categorie a rischio, i nonni, gli anziani, le persone fragili in genere, quelle immunodepresse, quelle con malattie croniche ma occorre tenere in mente anche i diritti di tutti gli altri. Su questo dovrebbero, forse, concentrarsi le task force di esperti.

Noi italiani siamo creatori di bellezza e di arte. Sentiamo profondamente il bisogno di produrre oggetti e servizi di bellezza ma ci serve anche chi possa apprezzarli e comprarli. Abbiamo bisogno di far ripartire tutta la produzione, l’esportazione, di ricevere i turisti e di visitare altri Paesi. Abbiamo bisogno di ripensarci come unità sociale ed economica.

Molte famiglie soffrono il trauma del lutto tragico e inaspettato o della malattia ancora in corso ma non è distruggendo posti di lavoro che potremmo far tornare chi non c’è più. La chiusura è stata necessaria per contenere la pandemia ma ora è necessaria una riapertura che non privilegi solo alcuni settori ma che indichi semplicemente il come va fatto nel rispetto delle persone e della vita.

4 pensieri riguardo “In tempo di coronavirus

  • Pasquale COLUCCI

    Comprendo la prudenza, condivido la necessità di tutelare i più deboli e gli indifesi ma non posso identificarmi con la paura che paralizza ogni possibilità di azione e conduce a morte certa, fosse anche e solo della mente .
    Si paragona la pandemia alla guerra. Anche in guerra la popolazione civile temeva la morte, si proteggeva dalle bombe
    nei ricoveri, certo, ma non rinunciava a vivere, nella speranza di un futuro migliore.
    Consentiteci di vivere, di lavorare, di affrontare (con le giuste cautele e responsabilità ) il nostro destino sanitario ed economico.
    Con sacrificio ed impegno, come siamo abituati a fare anche da prima della pandemia.
    Non c’e peggiore morte di quella per non avere vissuto

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    • Donatella Moica

      Non sono mai stato
      tanto
      attaccato alla vita.

      Scriveva Ungaretti davanti a un compagno morto nel 1915.
      Grazie Pasquale!

      Rispondi
  • bella analisi e molto chiaro in termini accessibili a tutti

    Rispondi

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