I limoni di Montale, in attesa del premio Nobel
Domani sapremmo a chi andrà il premio Nobel per la letteratura del 2016. Oggi, invece, Eugenio Montale avrebbe compiuto 120 anni, Aveva ottenuto quel premio nel 1975. Certo per un poeta che dichiarava di volersi allontanare dai vati e parlare solo al popolo deve essere stato strano vincere un Nobel, premio che più snob non si può. Al di là di questo, Eugenio Montale, se lo meritava proprio quel premio.
Si era formato da solo, studiando da autodidatta, e non era ben visto dagli altri “poeti laureati” come li chiama lui. La sua poesia era destinata al popolo (anche se non sono così convinta che il popolo potesse capire settenari ed endecasillabi) e traeva la sua ispirazione dalla strada e dalla gente comune.
Mi ricordo che, quando ce lo fecero studiare a scuola (ormai devo usare il passato remoto), non era molto amato. Il suo male di vivere era, per usare un termine comune tra i banchi, parecchio palloso. Eppure è proprio nell’adolescenza che il male di vivere si fa più forte, persino intollerabile qualche volta.
Era cresciuto al mare, Montale, e forse avrebbe voluto fare il liceo classico ma i suoi decisero che avrebbe dovuto fare studi tecnici condannandolo a sentirsi di serie B rispetto a grandi poeti come il D’annunzio (che proprio non gli stava simpatico). Ossi di seppia, forse era dedicata a entrambi, i genitori e i poeti laureati.
Io, invece, lo amavo Montale come amavo Leopardi o Baudelaire. Affogavo il mio male di vivere adolescenziale nella poesia e mi facevo consolare da chi consolatorio non era affatto. Ma si sa, mal comune mezzo gaudio. Deve essere stato questo a farmeli apprezzare.
Ossi di seppia, la raccolta di poesie di Montale dice già molto nel titolo: il rapporto d’amore col mare in primo luogo. L’osso di seppia, per chi non lo sapesse, non è solo una cosa carina che la seppia produce a beneficio dei canarini, ma bensì un avanzo dell’antica conchiglia. La seppia è un mollusco evoluto che nell’evoluzione ha perso la conchiglia conservando solo questo residuo e la conchiglia non serve ad altro che a proteggersi, nascondersi, sopravvivere… Gli ossi di seppia si rinvengono nelle spiagge quando il mollusco muore, vi arrivano sbattuti dalla corrente come relitti, come qualcosa che non serve più a niente…
La mia poesia preferita, però, non è così catastrofica anzi è dolce e lieve a tratti, soprattutto quando ricorda il profumo dei limoni. Un profumo, anche per me, legato all’infanzia che mi piace richiamare spesso quando scrivo e che, quando visiti, le cinqueterre di Montale non manca quasi mai.
I LIMONI
Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
lo, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.
Meglio se le gazzarre degli uccelli
si spengono inghiottite dall’azzurro:
più chiaro si ascolta il susurro
dei rami amici nell’aria che quasi non si muove,
e i sensi di quest’odore
che non sa staccarsi da terra
e piove in petto una dolcezza inquieta.
Qui delle divertite passioni
per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed è l’odore dei limoni.
Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s’abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.
Lo sguardo fruga d’intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno piú languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità.
Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rurnorose dove l’azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta
il tedio dell’inverno sulle case,
la luce si fa avara – amara l’anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo dei cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d’oro della solarità.