Certificazione di parità di genere e cambiamento culturale
Sono stata invitata a parlare di certificazione di parità di genere ed ho accolto l’idea con entusiasmo. Subito dopo, però, mi sono chiesta che tipo di apporto posso dare io come presidente del Terziario Donna Confcommercio, come imprenditrice e come donna. Cioè mi sono chiesta da che punto di vista posso guardare questo tema per offrire un contributo che sia fonte di riflessione.
Se lo guardo dal punto di vista della donna lo vedo come un diritto che avrei già dovuto avere perché i miei diritti sono sanciti dalla Costituzione come quelli di ogni altro cittadino di questo Paese indipendentemente dal genere.
art. 3 “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”;
art. 37 “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore.”;
art. 51 “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”.
Ma, e ci mettiamo un bel ma… il gender gap è ancora una realtà in tutti i Paesi, non solo in Italia. E per questo ci sono ragioni storiche e culturali ben radicate nel tempo che si basano su stereotipi e pregiudizi e richiederanno molto impegno per essere eradicate.
Il “Gender Gap Report 2022” del World Economic Forum, studio che tiene in considerazione quattro diversi ambiti di valutazione: partecipazione economica e opportunità, livello di istruzione, salute e sopravvivenza, empowerment politico, pone l’Italia al 63 posto, dopo Zambia e Uganda. L’Italia si è piazzata tra i peggiori per il primo punto, partecipazione economica e opportunità. Meglio di tutti sono i Paesi del Nord Europa dove vi è un approccio culturale molto diverso alle tematiche di genere.
Tutte le statistiche ci dicono che in Italia le studentesse e le laureate superano gli uomini, ma nel mondo del lavoro ne entrano meno, dove vanno a finire quelle ragazze?
E quelle che entrano nel mondo del lavoro dopo la fine del percorso di studi entro pochi anni rimangono indietro nella carriera professionale rispetto agli uomini con parità di competenze ed esperienza e questo vale soprattutto per le materie STEM. Le ragazze scelgono meno le materie scientifiche, tecnologiche e matematiche e anche qui entra in gioco il fattore culturale, che da noi è determinante. Secondo la dottoressa Antonella Viola che ha scritto il libro Il sesso è (quasi) tutto, bambini e bambine nascono uguali con le stesse capacità cerebrali ma alle bambine vengono date bambole, pentole o colori con cui giocare mentre ai bambini costruzioni, macchinine o utensili con cui smontare e questo determinerà i loro gusti e interessi futuri.
Ciononostante, nel corso della “Giornata internazionale delle ragazze e delle donne nella scienza 2022” è stato evidenziato che il numero di curricula di ragazze arrivati alle aziende in questo settore nel 2022 è triplicato rispetto all’anno precedente. La strada di trasformazione è iniziata e sono convinta che le ragazze sapranno scalare anche quella montagna.
Se invece guardo la questione come presidente del Terziario Donna Confcommercio di Pistoia e di Prato e della regione Toscana e quindi come persona che continuamente si confronta con altre realtà imprenditoriali, vedo che dove i ruoli apicali sono occupati da donne, siano esse manager o imprenditrici, le aziende si dimostrano più resilienti, più capaci di innovazione, più agili, proattive e, soprattutto, più sostenibili. Vi è all’interno di queste aziende una maggiore collaborazione sia verso l’interno sia verso l’esterno nel contesto in cui l’azienda opera, sono insomma aziende più generative. Questo non vale a prescindere, ci sono molte aziende a conduzione maschile che sono altrettanto eque e generative. Non dobbiamo generalizzare o banalizzare la questione.
Un’azienda è generativa quando si preoccupa delle conseguenze nel tempo delle proprie scelte. Se ci si preoccupa del futuro, per forza si deve agire in base a principi di equità, inclusione e sostenibilità. Per queste aziende che già esistono la certificazione sulla parità di genere è uno strumento utile per manifestare all’esterno le proprie prassi aziendali virtuose ma può anche generare un innesco di trasformazione del mondo intorno spingendo altre aziende vicine a fare lo stesso. Penso sia ad aziende che operano nello stesso territorio ma anche agli stessi fornitori o clienti. Si va a generare quindi una sorta di circuito virtuoso in cui le aziende operano. Questi circuiti virtuosi e per ora ipotetici si allargano come onde e ne coinvolgono altri. È così che avviene la vera trasformazione culturale, quando i modi e gli usi si trasformano e tutti si comportano in certo modo senza nemmeno chiedersi il motivo per cui lo fanno.
Poiché sono convinta che la libertà più vera, l’unica libertà, passi attraverso l’indipendenza economica, le aziende hanno un ruolo fondamentale nella trasformazione culturale di cui stiamo parlando oggi.
Penso che questa responsabilità si estenda anche alla rappresentanza, le associazioni devono essere un modello per le aziende che rappresentano, un modello per i territori che rappresentano.
La parità di genere deve attestarsi sempre di più come valore sociale e come parametro di riferimento per le aziende pubbliche e private. E non solo per i vantaggi che possono esserci ma soprattutto come strumento simbolico per innescare quel circuito virtuoso di cui parlavo prima.
Che le disparità ancora esistano lo dicono i numeri e non possiamo far finta che quei numeri mentano. E quindi ecco comparire nell’agenda 2030 il raggiungimento della parità di genere come fondamentale per lo sviluppo sostenibile. Vedete quando si parla di sostenibilità non si parla solo di ambiente, tra l’altro fondamentale, ma si parla anche di possibilità e opportunità per la nostra specie che non possono più prescindere da un’uguaglianza dei generi in tutti gli ambiti della vita, di un’uguaglianza che rispetta ogni diversità come punto di forza e di accrescimento. Ed è una scelta non solo eticamente doverosa ma anche conveniente dal punto di vista economico. Ormai ce lo hanno detto tutti gli studi più autorevoli, e in tutti i modi, che sarebbe assurdo non averlo capito. Già nel 1999 Kathy Matsui della Goldman Sachs con il suo studio diventato famoso con il neologismo di womenomics dimostrava che l’aumento del tasso di occupazione femminile era sinonimo di crescita economica.
Eppure, le barriere ancora ci sono, i pregiudizi ancora ci sono… ancora le donne fanno fatica a ottenere le posizioni apicali in azienda, hanno stipendi più bassi a parità di responsabilità e competenze. Ma perché verrebbe da chiedersi? Sembra una cosa irrazionale e illogica, controproducente per un’impresa volta al profitto e per una società volta alla sopravvivenza.
Se, invece, guardo alla certificazione per la parità di genere come imprenditrice vedo un’opportunità per valorizzare il capitale umano aziendale, vero punto di forza di ogni azienda. Salvo che un’azienda non produca, venda o offra qualcosa di assolutamente unico e inimitabile, e dubito che esista una tale azienda, l’unico vero elemento di distinzione di un’azienda da un’altra sono le proprie risorse umane. La certificazione è un ponte verso il futuro. Dotare tutti gli individui all’interno di un’azienda di pari possibilità e capacità per agire e partecipare significa contribuire consapevolmente al mutamento culturale, significa rigenerarsi e generare significati condivisi, identità collettive e forme sostenibili di lavoro e di produzione. Forme che tengano in considerazione il futuro e le generazioni che verranno, non solo quelle attuali.
Il lavoro delle persone che lavorano nella mia azienda non si ripercuote solo su di loro ma anche sui loro bambini e sulle loro bambine, sui compagni, sulle famiglie, sugli amici, sulle loro comunità. Le modalità, le parole, i processi che utilizziamo non si fermano dentro i muri dell’azienda ma escono fuori e hanno effetti all’esterno. Bisogna acquisire consapevolezza del tipo di effetti che l’azienda è in grado di generare intorno a sé; avere contezza della responsabilità sociale che un’azienda ricopre.
La sfida, quindi, è che la certificazione di parità di genere oggi importante mattone per la costruzione di quel ponte di equità verso il futuro, possa diventare un giorno qualcosa di scontato, indispensabile per fare impresa, come la partita IVA, per esempio. Perché in quel momento veramente si sarà realizzata quella trasformazione culturale che oggi auspichiamo.